di Francesca Bianchessi
Il film di cui parliamo oggi è “Il ragazzo che catturò il vento”, la prima prova alla regia di Chiwetel Ejiofor, l’attore britannico candidato premio Oscar per “12 anni schiavo” (McQueen, 2013) e che ritornerà sugli schermi italiani a maggio con “Doctor Strange nel multiverso della follia” (Raimi, 2022).
In questo film, oltre che essere il regista, è anche interprete: è il padre del protagonista.
La storia ci racconta la storia di William Kamkwamba, un ragazzo che vive in un piccolo villaggio del Malawi alle prese con l’agricoltura in una terra arida. Nonostante le difficoltà la famiglia Kamkwamba investe sull’istruzione dei figli, cercando di mandare il giovane William alle superiori e sperando di poter pagare alla primogenita Annie l’università. Progetti che sfumano quando il raccolto va perso e questo spingerà William a sfruttare le sue doti di ingegno per costruire un mulino a vento per estrarre l’acqua che permetterà al villaggio intero di piantare anche durante la stagione secca.
Il film va ad inserirsi nella categoria delle biopic, cioè una biografia, perché la storia di del film è una storia vera.
Da sottolineare per due motivi: uno è perché i film di questo genere vogliono far conoscere delle personalità meno conosciute o far emergere parti tratti nascosti di personaggi già celebri; l’altro è perché sono film che vogliono dare uno spaccato di storia. Se però “Il ragazzo che catturò il vento” riesce nel primo intento, il secondo si perde un po’ per la strada. L’accenno all’anno (il 2001) con annesse difficoltà mondiali dei mercati post attentato alle torri e le vicissitudini politiche del Malawi sono citate solo a grandi linee e non riescono a dare quel taglio storico alla vicenda.
Diverso è per la storia specifica: William è dolce come personaggio. Intendo dire che ricorda i ragazzi di “Cuore” o quelli de “I ragazzi della via Pal”: ha il sapore della semplicità dei figli delle famiglie povere della letteratura di fine ‘800 inizio ‘900, che lottano per andare a scuola. E in effetti è quello in cui il film riesce meglio, farci riprendere il concetto di scuola e di istruzione e di quanto questo sapere possa far uscire da una condizione svantaggiosa, quella di partenza.
Un altro tema portante della vicenda è portato dal padre, Trywell Kamkwamba. Lui e la moglie sostengono l’istruzione dei figli, ma questo padre è uno scommettitore. Non nel senso che si gioca i risparmi alle corse, ma perché agisce con poca lungimiranza, un po’ troppo ingenuamente. È un bel personaggio, che alla fine ha una forte presa di coscienza riguardo al suo affrontare la vita, rendendosi conto che una cosa certa su cui investire è l’ingegno del figlio.
È un bel contrasto nel complesso: l’uomo energico, impegnato ma ingenuo e il ragazzo ingegnoso, calmo e volenteroso.
Per chiudere sull’unica riflessione unitaria, che però nel film si perde un po’: investire sulle proprie risorse. Siano esse la mente o il vento, unica forza naturale amica che rimane da sfruttare, quello è ciò che va valorizzato.
Il film rimane godibile, anche se questi tratti retrò l’hanno fatto passare un po’ sottotraccia. Non è certo il migliore del genere, ma contiene quegli elementi dolci del rapporto padre figlio che rendono gradevole una serata in famiglia.