di Silvia Simonetti
La piecè cinematografica di Annie Baker
Janet Planet è il primo esordio cinematografico che innesta una vera piecè teatrale, come se fossimo all’interno di un palcoscenico che ruota intorno a noi, tra luoghi silenziosi, quegli spazi aperti degli Stati Uniti d’America laddove la terra diventa rurale e immaginale, in particolar modo nel Massachusetts occidentale.
La regista Annie Baker presenta quest’ultima rappresentazione in uscita il 28 giugno di quest’anno e forse ci è sfuggito in modo recondito perché non tutti gli spettatori si adeguano a una visione lenitiva dove le inquadrature racchiudono forme, rappresentazioni in cui gli oggetti e i dialoghi sono un rito quotidiano e si alternano tra ruoli primari, secondari o comparse che compongono il complesso organico della storia.
Qui si sceglie una narrazione interiore, impulsiva con un insolito schema familiare che in realtà viene rappresentato dalla madre Janet, interpretata dalla sublime e silenziosa Julianne Nicholson e dalla figlia Lacy, raffigurata dal forte e genuino talento di Zoe Ziegler.
Ci troviamo in una condizione domestica alla fine degli anni anni novanta, dove tutto il centro dell’opera cinematografica ricorda il testo di Guido Almansi nel Teatro del sonno laddove cita Thornton Wilder con il significato del vuoto:«Una volta mi hai chiesto ridendo se avevo mai sognato il vuoto. Ti ho risposto di si e da allora l’ho sognato spesso.»
Esiste un senso di tenerezza che congiunge l’amore materno e l’attaccamento della figlia senza nessuno sviluppo autonomo, difatti notiamo fin da subito che vuole dormire ancora con la madre, le accarezza il viso con la sua mano esile come se dovesse proteggerla, curarla dalle scelte sbagliate e faticose di Janet, una figura materna che porta a sé la sfinitezza, il sentimento d’inferiorità dovuta a una percezione di una realtà abissale laddove il suo volto appare neutralizzato con tonalità inflessibili ma talvolta libere come negli incontri con Regina, l’amica di Teatro, interpretata dalla destrezza attoriale di Sophie Okonedo o dal Maestro spirituale (Elias Koteas).
In essa vediamo un flemmatico distacco con la figlia, un’invisibile cronicità in cui Lacy cerca tutti i trucchi per fuggire dall’inizio dell’età matura come fingere di prendersi l’influenza, anche se la madre né è totalmente cosciente ma silente aspetta la sua metamorfosi.
Una trasformazione alla Janet Planet, un incantesimo ben riuscito perché quest’opera cinematografica anche se ha il timbro teatrale rimane personalizzato, a tratti ricorda eccezionalmente Sinfonia d’autunno (1978) di Ingrid Bergman laddove si cerca costantemente l’approvazione e il consenso di appartenersi, quell’uovo d’oro mai aperto ma talvolta socchiuso da dolori generazionali mancati.
Un film da ricordare, con il dovere di non essere obliato perché abbraccia tutta l’intera arte del cinema d’autore, a partire da alcune rappresentazioni: Il ragazzo con la bicicletta (2011) dei fratelli Dardenne, Sister (2012) di Ursula Meier, Birth – Io sono Sean ( 2004) di Jonathan Glazer e infine Juno (2007) di Jason Reitman.
Tuttavia dobbiamo rammentare che questa rappresentazione filmica è una rievocazione, quasi un sogno laudativo, tra vita ordinaria meraviglia. Accolti in un campo magnetico e cristallizzato laddove si è irradiati da fusione e distinzione emotiva dei personaggi, in cui il tempo è canzoniere di una favola che assorbe e crea «agli occhi della ragione, la soddisfazione della sensibilità, si sente ridicola .»






