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Mindhunter

20 Maggio 2022
738 Views
di Ludovico Riviera

Vi prego, andate a vedere Mindhunter.
Non solo perché, pur non essendo una novità (la serie ha esordito nel 2017), è un prodotto di punta del catalogo Netflix; ma anche perché, così facendo, caldeggereste la conferma della terza stagione, tutt’ora non confermata, a causa del non eccellente successo di pubblico delle prime due.
Credetemi: se amate il thriller, mi darete ragione, e anche voi iniziereste a sperare nel proseguio.

Mindhunter presenta l’inconfondibile stampo stilistico del riconosciuto maestro David Fincher, regista di Fight Club, Seven, The Social Network, Gone Girl; nonché produttore esecutivo del famoso House of Cards (sempre Netflix). Anche per Mindhunter, si presenta in doppia veste di produttore della serie e regista di molti suoi episodi.

La serie, ideata dallo sceneggiatore Joe Penhall, è scritta da John E. Douglas e Mark Olshaker.
Gli autori prendono ispirazione dal libro The Mind Hunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit (1995) di John E. Douglas, ex agente del bureau che descrive il suo sistema di profilazione dei serial killer, un sistema di analisi comportamentale sviluppato nel corso di decenni di interviste ad assassini, divenuto tecnica fondamentale delle forze dell’ordine per combattere questa strana, ambigua piaga – tipicamente statunitense, mi azzarderei a dire – del tessuto sociale contemporaneo; la serie è, pertanto, basata su fatti realmente accaduti, e ciò arricchisce enormemente l’interesse per la storia, in equilibrio tra realtà e finzione.

MINDHUNTER in foto Holt McCallany. Credits: Patrick Harbron/Netflix

La finzione della serie è costituita dal trasferimento dei dialoghi, queste interviste a svariati killer, in un contesto narrativo romanzato: gli agenti Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany), e la psicologa Wendy Carr (Anna Torv) sono personaggi costruiti ad arte, ma pur sempre basati sul vero team che mise in piedi lo studio sistematico, la catalogazione delle menti e dei comportamenti della stringa di assassini (Edmund Kemper, Montie Rissel, Jerry Brudos, Richard Speck e Dennis Rader tra gli altri, talora – spesso – ancora in vita) che mantengono, in opposizione ai protagonisti, la loro identità ‘storica’ autentica: il contrasto tra storia e finzione si addensa incredibilmente proprio nei momenti di colloquio tra le due fazioni, un dialogo che sappiamo per certo essere veritiero.

MINDHUNTER in foto Anna Torv.

MINDHUNTER in foto Anna Torv. Credits: Patrick Harbron/Netflix

Il distico raccoglie attorno a sé i migliori archetipi del poliziesco americano: personaggi oscuri, di matrice hard boiled, tormentati ed efficientissimi, che esplorando il limite che separa sanità e pazzia, si fanno coinvolgere in casi capaci di mettere in seria difficoltà le polizie del paese; oltre che talvolta, anche la resistenza degli spettatori.

Aspettatevi una scrittura di scena serrata, ritmata, una trama ben congegnata e un sano, spiazzante realismo che, mascherato dalla tenebrosa ma affilata prosa visiva del Fincher regista, diventa a tratti poetico, quasi sempre elegante.
La storia, ambientata negli anni ‘80, manifesta così un eccellente affresco storico che affronta – si spera fedelmente, ma mai con ostentazione – certe radici dei conflitti culturali e sociali che ancora oggi definiscono l’attualità degli US e non solo. Non pensate invece di trovare azione gratuita: l’abbondante suspense è, in Mindhunter, un fatto appunto mentale.

Quasi non c’è da stupirsi che una serie tanto bella abbia avuto scarso successo: è veramente materiale di qualità, quasi autoriale, inadeguato ai grandi numeri dell’intrattenimento.

Scusate l’eccesso di entusiasmo. Guardatela.

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