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VEDERE L’ARCHITETTURA. Intervista al fotografo Andrea Martiradonna

19 Dicembre 2016
2.535 Views
di Cristina Ruffoni

VEDERE L’ARCHITETTURA

Racconta Gabriele Basilico che Gio’ Ponti si scelse Giorgio Casali prelevandolo dal suo negozio di copisteria per insegnargli personalmente il mestiere di fotografo di Domus e avviare una collaborazione proseguita per quattro decenni dal 1953 al 1994…….

Il fotografo americano Joel Meyerowitz, nato nel 1938, proveniente dalla pubblicità, folgorato dalle immagini di Robert Frank, Cartier Bresson e Eugene Atget, lascerà l’agenzia per la quale lavora, per dedicarsi prima al cinema sperimentale in bianco e nero,  con Diane Arbus e Lee Friedlander come attori e fotografi e poi alla fotografia,  che nel suo caso, non e’ più solo street art o landscape ma composizioni, dove la tensione umana e il rapporto con lo spazio, determinano una nuova identità. Ma  la vera rivoluzione compiuta da Meyerowitz, è l’uso del colore, infatti nel 1962, persiste una notevole resistenza all’immagine a colori, considerata un’arte non seria e autorevole. Nel 1970, gli viene affidato il primo corso di colore alla Cooper Union a New York, dove oggi, troviamo altri rinomati fotografi che hanno studiato con lui.

La generazione di fotografi, alla quale appartiene Andrea Martiradonna, non si pone più distinzioni o divieti, con l’assoluta libertà espressiva che li contraddistingue. Nel rapporto che esiste tra fotografia e architettura, Martiradonna, non sembra volersi limitare nell’espressione artistica o relegare  nel rigoroso documento oggettivo dell’opera. Consapevole che esiste la fotografia e l’architettura e non la “fotografia dell’architettura”.

24 maggio

24 maggio

 

Certamente non si può eludere l’affascinante e arduo  compito di rendere visivo e concreto il linguaggio personale dell’autore, dell’architetto e in questo senso, gli anni 70’,  ci consegnano degli esempi sublimi, come il sodalizio tra il fotografo Aldo Ballo e l’immagine Alessi, Mies van der Rhoe e Ezra Stoller, Armando Salo Portugal con Luis Barragan e Le Corbusier con Lucien Herve’, scoperto quasi per caso dall’architetto nel 1949.

Emerge così un nuovo autore: il fotografo dell’opera ritratta, cioè l’architettura e l’architetto che si trasforma nell’elemento più esterno, spodestato del suo ruolo.

In molti casi, a partire dagli anni 80’, i fotografi del dopoguerra, come  Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Mario Cresci, Guido Guidi e Olivo Barbieri, hanno inaugurato “una nuova attitudine allo sguardo”, che trova nella forma architettonica, il pretesto e l’occasione per cominciare una loro autonoma ricerca.

Negli ultimi anni, la globalizzazione e il mercato, hanno costretto gli architetti a una particolare e approfondita ricerca del fotografo di riferimento, per trasferire la loro opera sui media visuali. In questa traduzione di contenuti  e rappresentazione visiva dell’opera architettonica, può capitare, come avviene nella moda, che la fotografia e il progetto grafico diventino importanti quanto o forse di più dell’architettura stessa e l’immagine può soppiantare e prendere il posto della realtà.

Lo stesso Gabriele Basilico, mettendo a fuoco il fenomeno precisa: “Se osserviamo le fotografie che illustrano un’architettura nuova, anche complessa, sono sempre poche, ben selezionate  e a dispetto delle esigenze di redazioni e d’edizioni, sono sempre le stesse. Si preferisce cioè distribuire  poche fotografie moltiplicate per tante testate specializzate”.

L’informazione e la divulgazione digitale hanno in parte destabilizzato questo equilibrio e dilatato la domanda e l’offerta e fotografi come Andrea Martiradonna, pur conservando una propria identità, scelgono  la strada articolata  e trasversale della committenza  eclettica, che include moda, design, editoria, produzione aziendale, cinema, in  un un percorso in continua evoluzione,  che passa da una campagna pubblicitaria ad una mostra alla galleria Jannone a  Milano.  Rimane però una costante nelle sue fotografie, oltre al rigore geometrico, alla limpida armonia della forma, tutto appare immerso in un  cristallo luminoso, nel quale  la luce e’ sempre così presente da risultare quasi assente e non proveniente da un punto preciso, da una sorgente particolare. E’ solamente in relazione e integrata, in simbiosi totale con lo spazio, senza doverci preoccupare della sua origine o della sua destinazione.

Crisantemo

Crisantemo

Gabriele Basilico e’ ricordato anche per i suoi ritratti di fabbriche, le facciate delle industrie milanesi. In quegli anni, quando si parlava di luoghi, si parlava solamente di centri storici. Quella generazione e’ stata la prima a livello internazionale (Stephan Shore, Lewis Baltz, Michael Schmidt, Paul Graham, Thomas Struth eccetera) che si fece carico di scoprire cosa c’era intorno ai centri storici, le periferie e le infrastrutture ritenute inguardabili, non belle e neppure armoniose e quindi non degne di essere rappresentate, diventano invece, soggetti ricorrenti. Ora, le archistar ritornano ad occupare soprattutto i centri storici e i fotografi come anche Martiradonna, sono molto lontani da quella “ricerca dell’Italia dei margini, del finto, del doppio, dell’Italia sostanzialmente esclusa”. Il tuo modo di fotografare l’architettura, pur nella differenza e nel superamento, e’ stato in qualche modo condizionato da queste visioni e ricerche ormai storicizzate?

Sicuramente sono insegnamenti fondamentali ed  esperienze irripetibili, che hanno segnato la mentalita’ e tracciato  la visione della nostra generazione; quando ho iniziato a  lavorare con Italo Lupi, come collaboratore di Abitare, nel 1992, avevo partecipato a una mostra dove esponevo immagini di fabbriche, con la stessa convinzione e consapevolezza di allora, che certe scelte e testimonianze rimangono nella Storia collettiva del nostro paese.

Ti sei laureto in architettura al Politecnico, con una tesi sulla Trattazione e archiviazione di immagini fotografiche. Puoi spiegare il senso e il criterio di questa scelta?

Andrea Bruno, l’architetto  di Rivoli a  Torino, mi aveva allora interpellato   e coinvolto per ideare e fare un progetto multimediale, un iper testo per questo Museo, che allora non contemplava nulla in questo senso. Un’idea in anticipo sui tempi,  che poi non venne realizzata e che abbandonai nonostante la prospettiva di guadagni futuri, perche’ la fotografia m’interessava e continua ad appassionarmi di piu’ della “comunicazione e della divulgazione digitale”.

Riguardo i suoi fiori, Robert Mapplethorpe scrive: “Tutti i soggetti sono per me la stessa cosa, perché è il mio occhio a fotografarli. Se io guardo un pene, un fiore o guardo te, non vi guardo in maniera diversa. Cerco solo la perfezione. La cerca nei ritratti, la cerco nel pene, la cerco nei fiori.” Invece i tuoi fiori in bianco e nero, esposti alla Galleria Jannone, sembrano al contrario, un invito all’imperfezione, alla disarmonia, al groviglio intricato, spogliandoli di algida apparenza e rassicurante esotismo. Cambia qualcosa se una tua fotografia finisce su un tavolo aziendale o sulle pareti di un luogo deputato all’arte?

Assolutamente nessuna distinzione,  la visione frontale e ravvicinata, la composizione formale e la compatezza materica sono le stesse, anche se,  nei fiori mi sono concesso una liberta’ espressiva, una deviazione necessaria e vitale, quasi liberatoria, per chi fotografa con i vincoli precisi della committenza. C’e’ l’aspetto del confronto e della divagazione in un altro ambito e Michele Lupi,  mi ha insegnato che le fonti d’ispirazioni sono infinite e non si esauriscono mai.

Apparentemente, quando fotografi degli edifici, come alcuni  a Porta Nuova,  sembri non privilegiare solo la visione frontale, ma quella obbliqua e trasversale, che comprende una parte rilevante di cielo, non più solo sfondo e induce chi guarda a privilegiare i materiali, i particolari, più che una visione d’insieme. E’ un tratto distintivo del tuo stile?

Non proprio, certamente la complessita’ e l’irregolarita’ di particolari complessi architettonici, mi spinge a visioni e  traiettorie alternative, con uno spostamento del centro in un orizzonte che comprende il contesto artificiale e il paesaggio naturale. L’inquadratura centrale e’ sempre il risultato di un’armonia delle parti e di un equilibrio di forze, che puo’ essere ottenuta nel micro e nel macro cosmo, nell’oggetto, come in un quartiere.

 

Chiesa

Chiesa

Anche per quanto riguarda la luce, la trasformi in una fonte interna, generatrice di energia diffusa oppure utilizzi l’ora del tramonto  ma spogliato di ogni effetto retorico o estetico, sempre dominato dall’illuminazione  artificiale, per una scelta più minimalista, da documento, per stabilire una giusta relazione tra l’edificio e lo spazio urbano contemporaneo. Ti ritrovi in queste relazioni particolari?

La luce si alimenta di limpidezza diffusa  ma anche di ambigue ombre che tagliano e separano superfici e puo’ far scoprire come funziona lo spazio in relazione a chi lo abita, al contesto urbano e all’identita’ molteplice di un edificio particolare. Gli effetti della luce non possono essere forzati ma si possono assecondare le sue potenzialita’ espressive.

Per Luigi Ghirri, i fotografi dovrebbero dimenticare se stessi per relazionarsi con il mondo in modo più elastico, non schematico, partendo senza regole fisse per scoprire e conoscere.  Spiega ancora Ghirri di aver trovato delle affinità tra la fotografia americana e i film di Vittorio De Sica, di Roberto Rossellini e Michelangelo Antonioni: vedute urbane, sobborghi, distributori di benzina, cartelloni pubblicitari, luoghi preindustriali. Quali sono i tuoi referenti? Anche per Martiradonna il cinema e’ una fonte inesauribile d’ispirazione? Ci sono registi che hanno sostituito i grandi maestri di allora?

Piu’ che la seduzione del grande cinema storicizzato, sono alcuni registi di video e filmmaker indipendenti ad incuriosormi e trasformarsi in fonte d’ispirazione,  come il francese Vicent Moon, da lui, ho cercato di assimilare ad esempio, la sua qualita’ e compatezza cromatica, le sue immagini dai colori saturi e vividi, in  una visione esterna, come in un interno. Un esempio, possono essere, le immagini che ho scattato,  delle installazioni alla Statale, durante la settimana del Design a Milano, nelle quali il colore gioca un ruolo scenografico e espressivo notevole.

Progetti futuri? Non hai mai pensato a una collaborazione, con uno scrittore? Per esempio Viaggio in Italia del 1984, a cura di Luigi Ghirri, con fotografie di diversi autori italiani e testo letterario di Gianni Celati, oltre che Arturo Quintavalle. Prima ancora il libro di Strand e Zavattini del 1955 o Le feste religiose in Sicilia di Ferdinando Scianna e Leonardo Sciascia del 1965.

Sarebbe affascinante, anche se I tempi e gli interlocutori del mio lavoro, richiedono impegno e concentrazione piuttosto serrati e specifici.ritratto

 

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