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A Real Pain

A Real Pain

5 Marzo 2025
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di Cristina Ruffoni

In A real pain nelle sale italiane ora David e Benji, due cugini che non potrebbero essere più diversi, intraprendono un viaggio della memoria sulle tracce della nonna scampata al campo di concentramento. Il film narra quel tipo di esperienza che ognuno di noi non dovrebbe rimandare e inconsciamente vorrebbe che gli capitasse.

“Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale…” scrive Nietzsche. E l’attore Kieran Culkin, non a caso vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista, riesce perfettamente a rendere la sensazione di chi è sempre alla ricerca di qualcosa, massima instabilità ma enorme percezione del resto del mondo.

I due cugini si uniscono a un piccolo gruppo di ebrei, un tour organizzato con guida, che da Varsavia si avventura nella visita al campo di concentramento di Majdanek. Ogni momento: scendere a una fermata sbagliata, fare delle foto di gruppo, la visita a un cimitero, vengono sconvolti ed amplificati emotivamente da Benji, suscitando lo stupore, le risa e l’imbarazzo di David, che per sua natura risulta introverso, composto e misurato. Eppure, è proprio questo lato infantile, eccessivo ed esplosivo, che riesce a far affiorare tutto il dolore e il disagio ma anche quelle sensazioni profonde che troppo spesso vengono represse e censurate dentro di noi.

Il regista Jesse Eisenberg, alla sua prima esperienza in questo ruolo, focalizza la sua interpretazione per esaltare quella potentissima di Kieran Culkin, facendo risultare il suo film con la stessa ironia e acutezza che potremmo trovare nei dialoghi di Woody Allen, con la medesima leggerezza e liricità della commedia francese della Nouvelle Vague senza mai cadere nella citazione stereotipata, nella nostalgia individuale o nel vittimismo di un popolo.

“Vorrei essere proprio come te, che quando entri in una stanza la illumini, anche se poi rovini tutto…”

confessa il cugino regolare e sposato David a Benji che ha tentato il suicidio ed è  fuori dagli schemi, consapevole che essere speciali e diversi in questa società, divisa tra perdenti e vincenti, ricchi e poveri, può essere un rischio, quello di non essere compreso e di rimanere isolato.

Non è un caso che il film inizia e si conclude in un aeroporto, dove a Benji piace stare, perché sostiene di sentirsi a suo agio, infatti gli sembra d’incontrare e vedere persone proprio come lui, “un po’ fuori di testa” e anche su di noi i posti di partenza e arrivo, esercitano un grande fascino, proprio come territori sospesi nel tempo e sganciati dalla routine quotidiana.

Questa storia che riesce anche a farci ridere, si trasforma nel tentativo più che riuscito di conciliare le nostre vite con la Storia più traumatica come quella dell’Olocausto e dimostra la possibilità di poter fare i conti con il passato come con il nostro dolore accumulato fin d’ora, quello che cova e cresce invisibile dentro di noi e che l’inaspettato e l’empatia con l’altro riescono a sradicare e sciogliere fino in fondo.

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