di Cristina Ruffoni
Il regista Francesco Constabile scrive il titolo del suo ultimo film Familia per ricordarci che non ne esistono due uguali ma purtroppo ce ne sono alcune, anzi troppe, caratterizzate e devastate dalla stessa modalità: la violenza.
Questa condizione, nella storia prima in qualche modo censurata dal genitore vittima, si espande come in un incendio, un danno collaterale prima circoscritto, poi amplificato e deflagrante, proprio come in un campo di battaglia dove anche se ancora non si è sferrato il colpo, la tensione è un crescendo in divenire, resa palpabile anche dall’uso magistrale della fotografia di Giuseppe di Maio, che come in un video d’arte, utilizza le crepe di un muro, il vetro bagnato o una luce verde al neon per esprimere claustrofobia, minaccia e rassegnazione. Si comprende fin dall’inizio, quando i servizi sociali separano i bambini dalla madre presunta vittima di un abuso da parte del padre, che invece di proteggere e prevenire, gli stessi organi ed enti deputati ad intervenire, aumentano lo stato di disagio e solitudine, abbandonando la vittima e i membri della famiglia al loro destino.
Il figlio maggiore, un’interpretazione all’ennesima potenza di Francesco Gheghi, (che con il suo impeto silenzioso, ricorda moltissimo il ritmo di Trainspotting) ci trascina nel gorgo della rabbia e della violenza, quando per reazione finisce in una sorta di setta dell’estrema destra, dove gli insegnano a rispondere al dolore con l’aggressione e alla mancanza di armonia ed equilibrio con odio e paura.
La madre, il cui ruolo è affidato all’attrice Barbara Ronchi, oggi una promessa mantenuta del Cinema italiano, riesce ad esprimere anche a livello di mimica facciale e del corpo la gamma infinita degli stati d’animo di chi si dibatte per recuperare una presunta normalità per la serenità e l’equilibrio dei figli e la rassegnata disperazione di chi riconosce la radice inestirpabile del distruttore e la devianza provocata dall’ erosione degli affetti in chi è votato all’inferno.
Di Tecla Insolia, ormai si conoscono il talento e la sensualità che ci aspettiamo in un’attrice al passo con questi tempi incerti e tormentati e anche in questa storia non smentisce la sua capacità di bucare lo schermo tra innocenza e sensualità.
La vicenda raccontata è vera, la cruda realtà tratta dal libro “Non sarà sempre così” scritto in carcere da Luigi Celeste, che, per difendere la madre, uccise il padre a ventitré anni e fu condannato a 12 anni di carcere, oggi uomo libero che vuole rifarsi una vita.
Quello che ci spiazza e lascia ulteriormente disarmati, sono la mancanza e la superficialità delle forze dell’ordine e delle autorità dello Stato nei confronti delle vittime e dei parenti, che, come in questo caso, sono troppo spesso costrette a farsi giustizia e reagire per conto proprio, perché abbandonati alla loro tragedia e al gorgo di terrore.
Il padre stesso, interpretato da Francesco di Leva, premiato al David di Donatello come miglior attore non protagonista, chiede come in un dramma mitologico al figlio di ucciderlo, incapace di sradicare da dentro di lui il seme della violenza. Ma le nuove generazioni, proprio come il giovane protagonista sono in grado di essere diverse e riscattarsi.
Infatti il film, considerato “necessario”, è stato portato in giro per le scuole dove ha suscitato grande partecipazione e dibattito, per un tema che è di fatto sempre più drammatico e urgente ma che molti giovani non sono più disposti a subire in silenzio come vittime consenzienti della violenza maschilista e patriarcale.







