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Presence

14 Settembre 2025
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di Cristina Ruffoni

Presence di Steven Soderbergh, un thriller soprannaturale del 2024, ribalta la struttura e il significato del genere horror e gotico, confermando la capacità del regista di rinnovare e mescolare i generi.
Il copione è scritto da David Koepp, autore di scritture di enormi successi, come il primo Mission Impossible, Indiana Jones e Carlito’s Way. Soderbergh, con uno pseudonimo, ha curato anche il montaggio e da cameramen si muove liberamente sulla scena, senza tagli utilizzando le riprese uniche e con le dissolvenze in nero, (tecnica hitchcockiana dei passaggi temporali da un giorno a un altro), riesce ad aderire integralmente al punto di vista del fantasma.

La Critica ha sempre considerato i suoi film, dai tempi del rivoluzionario Sesso, bugie e videotape, un esempio di come questo tipo di Cinema indipendente, possa risultare puro intrattenimento per il grande pubblico e al contempo, un modo per riflettere sull’audio visivo.

Per i temi trattati, i conflitti sotterranei tra i componenti della famiglia, l’incapacità all’ ascolto e la solitudine percepita da molti adolescenti e componenti di una coppia nel matrimonio, il vero protagonista della storia, è il dolore, l’orrore intimo, invisibile difficile da superare e la scelta di una unica location, quella della casa in periferia dove i protagonisti si trasferiscono, accresce ancora di più il disagio e la paura percepiti.

La figlia Chloe, reduce dalla perdita tragica e misteriosa della sua migliore amica Nadia, interpretata dall’attrice Julia Fox, star del Cinema Indie americano, è la prima a percepire la presenza, pensando che possa essere il fantasma della stessa ragazza trovata morta per un’apparente overdose.
Il regista, oltre ai movimenti della cinepresa, utilizza in modo strategico la luce che conferisce un effetto straniante ma anche costruttivo del ghost che muove gli oggetti, sbatte le porte, rovescia i bicchieri e assiste persino ai rapporti sessuali in atto.

Non c’è eccesso di violenza come nel Cinema splatter di Tarantino o di Parasite e neppure la lentezza contemplativa di Bergman, piuttosto la sospensione di un certo noir americano come Gaslight di John Cukor, con Ingrid Bergman o la suspense innescata dagli intrecci pisicologici di Steven King.

Inevitabile il collegamento con il pittore  Edward Hopper con i suoi interni cristallizzati e le facciate di case coloniche dalle finestre illuminate nella notte.
Il regista ha ammesso il suo interesse per quel genere pittorico di quel periodo, nel quale l’architettura si trasforma nell’elemento compositivo trainante per esprimere l’incomunicabilità e il fermo immagine per evocare il vuoto dell’elemento umano.

La storia, mentre ci coinvolge fino al finale come un giallo, ci racconta come siamo tutti ossessionati dal guardare e da essere visti, perdendo la capacità di empatia e introspezione anche nei confronti di chi abita con noi nella stanza accanto. In modo del tutto alternativo e inedito, il regista evidenzia anche la ferocia dilagante tra i giovanissimi, come Ryan il nuovo amico di Tyler, percependosi perso e incapace di controllare la propria esistenza e reagisce uccidendo per sentirsi vivo.

Questo regista non ci delude mai e ci sorprende ogni volta, coniugando eleganza compositiva, ricerca psicologica, analisi dei linguaggi e la rivisitazione dei grandi classici del Cinema, potendo imboccare così la strada della comprensione del presente e di una previsione autentica del domani.

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