di Cristina Ruffoni
Pericolo scongiurato da parte del regista James Mangold di rendere, A Complete Unknown un ulteriore ed ennesimo biopic celebrativo sulle icone musicali e quindi anche su Bob Dylan. Al contrario, la scelta di caratterizzare il corso dei cinque anni raccontati, dal 1961 al 1965, attraverso i brani musicali, rende il film quasi un musical e si percepisce con nostalgia, la voglia e la necessità di allora di cambiamento e di protesta espressa e condivisa con il processo creativo del cantautore nei confronti della politica guerrafondaia statunitense.
Gli attori recitano tutti come se fossero i protagonisti e ognuno di loro raccontasse la propria versione della storia, della personale esperienza umana e artistica con Bob Dylan, interpretato in modo sublime da Timothée Chalamet, che lo rende fisicamente e nella mimica come nella voce, nella sua volontà di sparire e di sottrarsi, quasi metafisico e surreale. Anche Edward Norton è stato candidato all’Oscar, come miglior attore non protagonista, riuscendo a rendere al meglio il ruolo innocente, naïf e passionale di Pete Seeger, il paladino della musica folk e delle sue istanze di giustizia e uguaglianza.
Tutto ruota intorno al concerto del 1965 di Newport, dove inaspettatamente Bob Dylan si presenta con una chitarra elettrica al posto di quella acustica accompagnato da una band e i puristi del folk inorridiscono e lo condannano. Interessante e fondamentale sapere, che lo stesso Bob Dylan, interrogato dal regista, spiega questa sua decisione non come un tentativo di rivoluzionare la cultura musicale del tempo o di soddisfare un’aspettativa discografica, ma semplicemente come il suo desiderio di non essere solo sul palco, di collaborare con altri musicisti che ammirava come Buddy Holly, Little Richard o Hank Williams. Un autentico bisogno umano di condivisione più che quello di cambiare la musica popolare. Anche se poi sappiamo quanto Bob Dylan abbia sempre difeso con ferocia e intransigenza la sua indipendenza e la sua ricerca, pur continuando a sostenere la sua inconsapevolezza di ventenne di essere decisamente avanti con i tempi, non ancora pronti, allora, per un cambiamento così radicale. “Stavo semplicemente vivendo quel momento”. Joan Baez, lo schernisce ma poi lo comprende, quando canta con lui, “They Are A – Changin”, affascinata come molti altri, dal suo lato poetico innovativo prima ancora che ideologico e sapendo quanto lui rifuggisse il ruolo di portavoce di una generazione, anche se Johnny Cash l’aveva soprannominato proprio come: “colui che suona contro i poteri forti”.
La cura della scenografia è molto accurata e attenta ai dettagli, la ricostruzione dei luoghi, delle strade e soprattutto del suo appartamento/studio, dove ogni oggetto, dalla macchina da scrivere ai libri e spartiti vengono replicati con romanticismo ma anche con precisione e fedeltà. Alla fine vediamo sfrecciare via Bob Dylan sulla sua moto, sapendo del suo incidente misterioso accaduto poi, della sua scomparsa per anni dalle scene, a parte un’apparizione all’isola di Wight nel 1968, ma questa è un’altra storia, che il film non ci racconta, anche se, rispetto al titolo, il regista non è d’accordo nell’enfatizzare il mistero di uno come lui che ha composto e pubblicato 55 dischi e pur nascondendosi, quando vedeva Johnny Cash e i Tennessee Three ripeteva: “Loro si divertono e io sono solo…”







