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Dimenticare se stessi, per relazionarsi con il mondo

11 Giugno 2018
1.383 Views
di Cristina Ruffoni

 

 

“….E proprio sull’umile referenzialità fotografica, invece che sull’enfasi spettacolare della realtà virtuale, che possiamo contare per tenerci in contatto con il reale, con la memoria e con gli affetti e cercare cosí di impedire che la vita si mortifichi e si disperda in rappresentazioni arbitrarie…”

 

Apollo e Dafne – Fotografia e Inconscio tecnologico – Franco Vaccari

Nel testo Introduzione, in occasione della mostra Paesaggio, Immagine e realtà alla Galleria d’Arte moderna di Bologna nel 1981 e in Paesaggio italiano, che inaugurò a Reggio Emilia nel 1989, Luigi Ghirri ringrazia anche “i fotografi anonimi delle cartoloine illustrate, primi incontri evocativi dei luoghi. Fotografi come la figlia Ilaria,  che con la sua freschezza giovanile,“toglie un pò di pesantezza al mio vedere…”.  Dagli inizi degli anni ‘60, ritroviamo lo stesso continuo approfondimento di Franco Vaccari verso la fotografia amatoriale, vissuta come un modello potente di rigenerazione della pratica fotografica. Lo scopo? Spiega Ghirri: Dimenticare se stessi per relazionarsi con il mondo in modo più elastico, non schematico, partendo senza regole fisse per scoprire e conoscere.

Quella sfida della contemporaneità e del presente, Vaccari, non l’ha mai trascurata, nei quaranta anni della sua ricerca, fin dagli esordi, nel primo video:  Nei sotteranei  del 1967, dove già troviamo alcuni elementi costanti del suo lavoro, riassunti nel saggio Tracce del 1966, come il confronto tra immagine e scrittura, tra linguaggio tecnologico e poesia e la dissoluzione dell’autore e la costruzione di una nostra identità che è dentro e fuori di noi, una sintesi in continua evoluzione di mondo esterno ed interno.

Nel saggio: Fotografia e parola, contenuto nel suo libro più diffuso: Fotografia e Inconscio collettivo del 1979, Vaccari, prende in esame la visione e scrive: “I mezzi di registrazione, che penetrano cosí addentro ai fatti e ne frantumano le strutture hanno fatto esplodere il concetto di Storia, che è diventata assolutamente incapace di rendere conto dell’enorme complessità dell’accadere…..”. La tecnica, non si limità per l’artista, a popolare il mondo di nuovi oggetti, ma anche di nuovi mezzi espressivi, cambiando le modalità tradizionali di comunicare e di percepire. Già Heidegger, uno dei suoi filosofi di riferimento, nel 1927 avvertiva che, guardate da un punto di vista tecnico, le cose cambiano volto. Su questa modificazione della percezione è necessario insistere, per Vaccari, perchè la trasformazione dell’uomo non è affidata alla novità delle cose, ma ad un nuovo punto di vista da cui sono guardate. Una distorsione rispetto al centro, un’alterità invece che il consueto, un’immagine sfasata che interrompe l’alta definizione, lo sguardo e la partecipazione del pubblico, piuttosto dell’elogio della critica all’autore, lo spazio pubblico che invade quello istituzionale dell’arte, per sottrarre la rappresentazione dall’immobilità, l’azione dalla distanza temporale.

Su questa scia, La cabina Photomatic, presentata da Vaccari alla Biennale nel 1972, rimane la sua opera più dirompente e innovativa, che negli anni 90’, ha indotto molti artisti a perseguire l’interazione, la proliferazione autonoma dell’evento artistico.  “Lascia sulle pareti, una traccia fotografica del tuo passaggio”, un invito in diverse lingue, che ha sortito più di seimila ritratti sulla parete, modificando le finalità dell’unicità ufficiale dell’istituzione  espositiva e quella pratica e riduttiva delle  fototessere e mettendo in atto, un intervento in espansione in tempo reale con possibilità di feed-back o “contro reazione”, in un continuo riesame.

La sfida culturale di Franco Vaccari, oltre che filosofica, in un continuo ripensamento delle nozioni sull’uomo, è anche rivolta alla psicologia, rimescolando le varie impostazioni, dalla psicoanalisi alla psicologia della forma, alla psicologia del comportamento.

Entra cosí in gioco, “L’ingegnere del tempo perduto” Marcel Duchamp, l’artista senza talento, come lui stesso, amava definirsi, soggetto indagato da Vaccari  in Duchamp e l’occultamento del lavoro del 1978, nella convinzione condivisa, che l’arte non sia uno scopo in sè, finalizzato alla produzione delle opere come prodotti del mercato e feticci ideali per collezionisti ma un modo di vivere l’esistenza con euforia costante.

 

La sua opera è costituita da un’infinità di idee, di progetti, che vanno da oggetti microscopici a grandi eventi pubblici, anticipando  tendenze e modalità, senza mai essere ingabbiata in definizioni o gruppi. I suoi video, polaroid, performances, cosí come i suoi libri e le sue installazioni sono esposti al cambiamento,  aperti all’iniziativa dei destinatari, i “coautori” di opere in corso di esecuzione, mai veramente concluse. Ritorniamo all’idea essenziale di Duchamp, che faceva di tutte le reazioni e sviluppi ulteriori dell’opera, il punto finale continuamente allontanato dalla creazione?

Cosa si può aggiungere? Ha già detto tutto lei e in modo molto chiaro.

In Azione a distanza del 1976, una sua lettera dattiloscritta invitava a spedire due foto  dello spostamento di un oggetto o di una persona. Le stesse dinamiche di controllo registrato ma non archiviato, sono state adottate successivamente  dal reality televisivo che confonde fiction e quotidianitá. Nell’indagine sui media, si annuncia la fine delle ideologie, non avendo più un punto di vista privilegiato, là dove il tempo non è più fissabile precisamente come con la fotografia e neppure scomposto in sequenze significative come in un film. Cosa consiglia oggi, a un giovane artista che usa la tecnologia e i linguaggi dei mass media, per ribaltarne i codici e le finalità e non rimanere intrappolato?

La situazione è cosí complessa che dare consigli è diventato impossibile. Chi ha il coraggio di farlo?

Le tracce e i graffiti nei bagni e negli scantinati, intercettati e resi protagonisti da Vaccari, sono diventati poi in pittura e fotografia, in anni recenti, un tormentone sul relitto, sul degrado e sulla demolizione, muri e scritte incorniciati in fiere e illuminati nei vernissage. Lo spettacolo altera e deforma tutto?

Quello che lei ha elencato, sono tutti segni del nostro tempo. Se fossimo nel ‘700, i  nostri sfondi più utilizzati sarebbero stati paesaggi bucolici con mucche al pascolo.

Nel suo lavoro, rivendica e ribadisce affinitá elettive e di programma con la Poesia Visiva, in particolare con il Gruppo di Firenze, anche per la passione comune per i documenti, i ciclostili, in una rivolta che è sempre poetica. Rispetto a Kossuth e al Concettuale, cosa ha rappresentato per la sua ricerca questo particolare fenomeno?

Kossuth è un artista sopravvalutato. La filosofia a cui si riferisce è quella anglosassone che ai suoi tempi era già in una fase decadente e volerla imporre era una forma di imperialismo culturale.

Nel progetto web, Artist’s Atelier del 1996, presentato alla Casa del Giorgione a Castelfranco Veneto, i luoghi degli artisti del presente, prevalgono su un grande e venerato artista dell’antichitá. Cosa significa per Vaccari la storia dell’arte?

Non era mia intenzione privilegiare l’arte del presente in confronto a quella del passato, anzi era un omaggio al grande maestro che ci ospitava. E’ incredibile che con tutti i suoi difetti l’uomo sia riuscito a costruire qualcosa che va sotto il nome di storia dell’arte.

In una galleria, lo spettatore ripreso, nel passaggio da una camera all’altra, si ritrova al centro dell’esposizione al posto delle opere. Per comprendere bisogna ribaltare ruoli, costringendo la critica, ad occuparsi anche dello spettatore?

Più che comprendere, bisogna constatare.

 

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