di Francesca Bianchessi
Presentato al Festival di Venezia (leggi di più qui) e ora è al cinema: parliamo di Freaks out. Potremmo dire che il secondo film per la regia di Gabriele Mainetti sia a cavallo tra “Il mago di Oz” e “Bastardi senza gloria”. Con una spruzzata di “Train de vie” e un’incursione da “I Pirati dei Caraibi”.
“Benvenuti signore e signori” così inizia il film: il mago Israel (Giorgio Tirabassi) ci accoglie nel suo circo e ci presenta i suoi artisti in uno spettacolo ben orchestrato dove, al suono di una musica lieve, ci vengono presentati i nostri “freak”.
Cencio (Pietro Castellitto), Fulvio (Claudio Santamaria) e Mario (Giancarlo Martini); un uomo lupo, intelligente ma freddo, un uomo calamita, di buon cuore ma con carenze intellettive, e l’uomo insetto, simpatico ma pavido. E poi c’è la nostra “Dorothy”, Matilde, la ragazza elettrica interpretata da Aurora Giovinazzo.
Tutta questa dolcezza nella presentazione dei personaggi può sembrare “poco Mainetti”, specie se avete visto il precedente (e bellissimo) “Lo chiamavano Jeeg Robot”.
Infatti la scena si chiude brutalmente con un bombardamento sul circo, in una scena a piano sequenza che credo abbia pochi eguali in Italia. Non contento, il dialogo immediatamente successivo è molto vivace, umano che ci avvicina molto ai protagonisti.
Dove siamo? Siamo in Italia è il ’44, tra bombardamenti e deportazioni, il problema principale dei nostri artisti di strada è trovare un nuovo circo, perché il mago Israel è sparito e il loro circo è stato distrutto dalle bombe.
Alla ricerca di un nuovo posto dove stare, Matilde andrà alla ricerca di Israel, mentre gli altri tre cercheranno di entrare al Zirkus Berlin, un grande circo nazista gestito da Franz (Franz Rogowski), anche lui “freak”: sei dita per mano che lo rendono il miglior pianista del Terzo Reich.
È lui il nostro antagonista. In più, avendo il potere di vedere il futuro, sogna la vittoria del nazismo per mezzo di quattro personaggi con poteri straordinari, di cui però non conosce il volto.
La storia riguarda tutte queste ricerche che s’intrecciano per le vie di Roma, dove la guerra si intuisce dalla folta presenza dell’esercito tedesco, ma è solo il contesto dove si muovono tutti questi “mostri”. Lungo il loro cammino incontreranno diverse categorie di “freak”, dai ragazzi down presi (e uccisi) nei rastrellamenti, ai partigiani tutti con menomazioni agli arti. Sono loro la parte (volutamente) “piratosa” del film, sono pirati nelle vesti e nei modi. È uno sguardo interessante ai partigiani, li ritroviamo qui nella loro veste più brutale e al contempo scanzonata: quella che non siamo mai riusciti a raccontarci.
Torniamo a dire però che questo è principalmente un racconto di freak. È un racconto, come in parte lo è stato “Lo chiamavano Jeeg Robot” di accettazione rispetto alle proprie specialità. A differenza del precedente però, Mainetti qui è più leggero, vuoi anche per la lontananza temporale rispetto alle vicende raccontate. Inoltre in “Freaks out” non abbiamo due percorsi diversi negli intenti, il potere usato a fin di bene e l’altro per scopi malvagi, ma due percorsi opposti. Da una parte la graduale accettazione dei propri poteri e responsabilità conseguenti, mentre dall’altra una graduale regressione verso il voler negare la propria naturale diversità. Notiamo anche come il volersi adeguare, sia parte di quella ricerca folle del modello inarrivabile e perfetto che era quello della razza ariana.
Citiamo nuovamente “Lo chiamavano Jeeg Robot”, perché in quel film si operava una piccola rivoluzione: sullo schermo c’è un “supereroe italiano”. Il racconto è perfettamente calato nella Roma moderna, è facile immedesimarsi col protagonista Enzo, in contrasto con il mondo che si trova a salvare.
Similmente in questo nuovo film, Mainetti torna a riallacciare i rapporti con la narrazione nostrana però sul tema della Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo sempre faticato a raccontarci in generale, in particolare abbiamo faticato a raccontare l’Italia della guerra. Con solenni eccezioni come “La vita è bella”, però speriamo di non dover attendere altri trent’anni per ritrovare un racconto così puntuale, per quanto fantastico.