di Cristina Ruffoni
Nel 2030 in Svizzera mancheranno 30.000 infermieri qualificati, la questione è in realtà globale e rappresenta un rischio per tutti. Il 36% abbandona il lavoro appena dopo 4 anni.
Finisce con questa informazione il film L’ultimo turno della regista Petra Volpe, ora nelle sale e candidato tedesco all’Oscar come miglior film straniero.
Nel ruolo di Floria, infermiera protagonista, l’intensa Leonie Benesch, già ampiamente apprezzata per l’interpretazione dell’insegnante in Consiglio di Classe, che viene seguita nelle corsie del reparto, con la macchina a mano durante lunghi piani sequenza, che contribuiscono a creare e accrescere la tensione per tutto il tempo del turno serale in un ospedale cantonale svizzero e della durata stessa del film.
Floria riesce, nonostante il dolore e l’insofferenza di certi pazienti solventi e l’aggressività di alcuni parenti dei malati, a far sentire ogni suo malato accudito e speciale, facendosi amare da tutti. Uno dei più anziani, prima di scappare dal reparto per tornare dal suo cane adorato, le lascia un biglietto, rivolgendosi a lei definendola un angelo.
In un crescendo vorticoso di camere, siringhe, medicine, flebo e letti vaganti, incrociando sguardi e sempre con parole di conforto per tutti, senza potersi fermare sulla singola storia e particolare condizione, ci immedesimiamo in questa donna con una profonda empatia e umanamente straordinaria, temendo che da un momento all’altro, possa succederle qualcosa di grave e irreparabile o che lei possa commettere un errore fatale, tale è la frenesia e il vortice di richieste e prestazioni mediche e psicologiche.
Ormai questa condizione si è ulteriormente aggravata ovunque e oltre ad essere un impegno fisicamente e emotivamente portato all’estremo, anche economicamente almeno in Italia, e non sufficientemente retribuito. Nonostante queste premesse essenziali, il film non si risolve in dramma, lasciando un bagliore di speranza e confidando che questa meravigliosa infermiera, possa essere un esempio da perseguire per tutti in questo mondo di ferocia, intolleranza e cinismo.
Sembra quasi che Floria, abbia poteri magici e durante il ritorno a casa, sul tram accanto a lei, s’immagina di trovare la paziente anziana deceduta da sola proprio durante il suo turno. Le storie si intrecciano, in una dimensione dove non conta quanto guadagni o se puoi permetterti la camera singola, nella consapevolezza che la malattia e la morte non risparmiano nessuno e ci rendono in quel frangente molto simili. La domanda prevista per tutti è: “Da uno a dieci può definire l’intensità del suo dolore?” Ma poi non si tratta solo di farmaci somministrati o di trovare subito la vena, bensì di un’onda di calore, affetto e della capacità all’ascolto, che possono fare la differenza.
Allora ci ritorna in mente il capolavoro di Charlie Chaplin, Tempi moderni, e ancora oggi scopriamo che quando un regista vuole parlare del dramma insito inevitabilmente nel lavoro, della difficoltà a volte di stare al mondo e dei mutamenti nella società, deve ricordarsi della leggerezza poetica e dell’efficacia della carica umana per arrivare a parlare intimamente con lo spettatore.






