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La garanzia Wes Anderson: The French Dispatch

25 Novembre 2021
576 Views
di Ludovico Riviera

Presentato al Festival di Cannes (leggi qui),  The French Dispatch è un’intelligente “lettera d’amore per i giornalisti” che non risparmia una sottilissima vena critica, nascosta tra i meravigliosi dettagli della regia andersoniana.

Wes Anderson

John Rasimus, CC BY-SA 4.0

Chi conosce un minimo Wes Anderson sa bene che il regista dispone di un tocco registico tanto riconoscibile quanto impositivo: le sue storie sono, pressoché sempre, incasellate in una fotografia maniacalmente curata, e caratterizzata da inquadrature composte mettendo a frutto gli insegnamenti che molta arte visiva (soprattutto pittorica e fotografica) occidentale e non, antica e moderna, ci ha lasciato nel corso di millenni.
Anderson è praticamente un pittore che fa cinema, istruitosi in un fare visivo didascalico, anche smaccatamente retorico – perché no – tipico di chi, in quanto americano, ha conosciuto la maggior parte di tale ammirato scibile artistico soprattutto come visitatore: lo cita, lo utilizza, ma col distacco della scientificità di chi si appropria di una cultura non appartenendovi del tutto. Usandola però, come solo gli artisti possono sperare di fare, a fin di bene: il risultato è invero quasi sempre un concentrato di sapienza tecnica e grazia talmente caratteristiche che, oramai, l’aggettivo ‘andersoniano’ è entrato a far parte del gergo cinefilo da anni.

The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun è l’ennesima messa in prova riuscita di una formula collaudatissima, che si espande ad ogni nuova pellicola.
Anderson mette qui in scena la morte di un efficiente direttore di rivista (un sintetico ma sempre eloquente Bill Murray), il Dispatch del titolo appunto, e dei suoi collaboratori che, per onorarne la dipartita, mettono in piedi l’ultimo numero del magazine seguendo le volontà del defunto: un ultimo pugno di articoli e un memoriale.
Il film si snoda tra le varie rappresentazioni dei reportage di cui si compone quest’ultima uscita: seguendo la scansione delle pagine del fascicolo, troviamo un reportage su di una cittadina francese stilato da un Owen Wilson in bicicletta; la biografia incredibile, presentata dall’estrosa Tilda Swinton, di un pittore-criminale (Benicio del Toro) la cui opera diventa strumentale per l’esplosione delle avanguardie; una cronaca su proteste simil-sessantottine compilata da una puntuta Frances McDormand; e infine, forse il miglior racconto del lotto si basa sul magnetico Jeffrey Wright che, dovendo scrivere di un rinomato chef di polizia, si ritrova nel mezzo di un rapimento, sgominato proprio dal coraggioso cuoco.
Del memoriale ‘vediamo’ solo l’incipit, posto a fine visione, scritto coralmente da tutta la redazione, ritrovatasi al capezzale dell’amato direttore.

Anderson ha descritto l’opera come una “lettera d’amore per i giornalisti”, professione che vanta una storia incredibile negli States, che produsse una tradizione alla quale tutto il resto del nostro mondo dovette adeguarsi: il French Dispatch è un oliatissimo magazine di costume, praticamente una seria caricatura del New York Times che fu, che pubblica approfondimenti di veterani della cultura come oramai, purtroppo, troppo spesso mancano; il film produce un’immagine idilliaca di ciò che una redazione seria dovrebbe fare, garantire cioè un luogo ove le più disparate personalità scrivono liberamente contenuti interessantissimi, senza limitazioni di sorta che non siano quelli delle pagine pubblicabili.
Sappiamo bene che la realtà è però ben diversa: Wes Anderson non lo dimentica, e pur prodigandosi nella costruzione di un mondo paradisiaco pressoché inesistente, lo dissemina di metafore e piccoli realistici indizi, che ci riportano alla triste verità dei fatti, interpretabili tra le maglie delle impostatissime e vorticanti scene, oltre che tra le numerose e fulminee battute del film.
Direi infatti che, sebbene lo stile andersoniano sia come al solito godibilissimo – per gli estimatori: ma c’è chi lo odia, ed io capisco entrambi – la vera figura della situazione la fa la sceneggiatura, che allinea una sequela di racconti che, pur gustosissimi, sono in grado di spiegare perfettamente ciò che non va nel mondo della cultura a cui, con costruita leggerezza, si riferiscono.

Qualche esempio, senza troppi spoiler (non che rovinino un film del genere, beninteso): la perfetta radiografia delle intenzioni dei mercanti d’arte nel loro creare fenomeni culturali ‘dal nulla’, con la sola forza della speculazione contro cui l’ostinazione dell’artista, tristemente, nulla può; il connubio, inevitabile seppur ipocrita (ma dialetticamente coerente), tra rivalsa sociale, voglia di cambiamento rivoluzionario e le forze della retorica antiquata che si vorrebbe rovesciare (l’episodio con l’oramai consacrato Timothée Chalamet ha un sapore amaramente odierno); l’enorme presa in giro del corpo di polizia che si affida ad un cuoco per risolvere un caso di rapimento… ogni episodio ha un tema preponderante, di cui il cronista che se ne occupa è ovviamente il perno narrativo, ma nel proseguire dell’allegoria continuano a svilupparsene di laterali, nella complessità riuscitissima di una scrittura filmica da accademia di cinema.
L’ironia manierata che impregna i dialoghi è a tratti esilarante, ma sempre garbata, anche nel mostrare i lati più grotteschi degli archetipici personaggi. Personaggi che sono moltissimi: Anderson, da autorità quale oramai è, si permette di utilizzare attori di prim’ordine anche per scene di pochissimi minuti. Vediamo dunque spalle e comparse eccelse, come Léa Seydoux, Adrien Brody, Mathieu Amalric, Willem Dafoe, Edward Norton e Christopher Waltz. Una galleria col meglio di un’intera generazione attoriale, che si muove agilmente in ambiente scenico che definire eclettico sarebbe un’eufemismo.

L’unico problemino del film, oltre all’esosità dello stile di Anderson che non ammette posizioni di comoda neutralità, è forse un ritmo narrativo altalenante, che non sempre aiuta l’attenzione dello spettatore: ma è cosa di poco conto, di fronte alla forza dell’amore che Anderson dimostra di avere per la cultura del recente passato moderno, morente, di cui questo film è affettuoso tributo.
Come ogni grande artista sa fare, anche Anderson, pur dimostrando enorme riconoscenza verso un passato attentamente osservato, usa l’intelligenza di uscire dall’impasse della venerazione acritica, e ci consegna un affresco degno di essere visto per il rigore cronistico – ahimè, fittizio – e la deontologia, l’etica che riesce a disporre perfettamente in scena.

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