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West Side Story

1 Gennaio 2022
1.595 Views
di Francesca Bianchessi

Per la regia di Steven Spielberg, West Side Story è un remake dell’omonimo film premio Oscar alla miglior regia nel 1961 con le musiche di Leonard Bernstein, che portò al cinema il musical di Broadway il quale è liberamente ispirato alla tragedia Shakespeariana di Romeo e Giulietta.

Una volta chiarita la gerarchia e messo in chiaro di cosa andiamo a parlare, possiamo parlare del film più nello specifico: per chi è “West side story”? Perché no, non è per tutti. Sono in effetti 2h30 di musical e chi non ama i musical ne potrebbe uscire sconfitto. Se invece, non apprezzate il finale tremendamente simmetrico della tragedia di Shakespeare (muore lui, muore lei), questo musical potrebbe riservarvi delle sorprese e, come nella tragedia, più che ai protagonisti ci si affeziona al contorno. Non Romeo o Giulietta, ma Mercuzio e Tebaldo, non Anton o Maria, ma Bernardo e Riff e soprattutto Anita.

Prima di parlare nello specifico di questi personaggi, meglio contestualizzare: New York, metà degli anni ’50, due gang di adolescenti si scontrano per il territorio nel Upper West Side, Manhattan.
Da una parte abbiamo i portoricani, venuti in America alla ricerca di opportunità e trattati da immigrati, gli Shark.
Dall’altra i Jets, nell’idea originale dovevano essere un gruppo misto di cattolici irlandesi e ebrei polacchi, nel film l’unico di cui abbiamo una connotazione esatta è il nostro Romeo-Anton, che viene chiaramente appellato “polack”. Sempre nel film troviamo una definizione secondo me più calzante che è (vado a memoria) “il residuato caucasico”, cioè i bianchi che non ce l’hanno fatta.
In questo contesto, il sopracitato Anton ex-membro dei Jets e amico del loro capo Riff, si innamora di Maria sorella di Bernardo, capo degli Shark.

I due si incontrano durante una serata danzante in palestra, che non citiamo a caso, ma perché in un musical la parte del leone la fanno canzoni e coreografie e lo scontro sulle note di “Mambo” era memorabile nel film del ’61 e rimane memorabile anche qui. Anche perché rende evidente la diversa “casacca”, gli Shark gialli e arancioni e i Jets in blu- azzurro. Intendiamoci, in ogni rappresentazione che vede due fazioni la cosa più immediata è vestirli in modo che la divisione venga accentuata ma, è Spielberg, la fotografia è sul blu ogni volta che in scena sono solo Jets e virata al caldo quando i protagonisti sono gli Shark. Un ulteriore apprezzamento va ai costumi che, rispetto alla versione del ’61, sono meno impostati, poiché nella precedente versione i gangster andavano in giro in giacca e cravatta. Li ricordavo vagamente diversi in “Cera una volta in America”…

 

Mi piace fare un altro piccolo inciso sulle luci che accentuano il collegamento con il teatro, quindi faretti mirati e il resto della scena in penombra. Ci sono poi i riflessi di camera, voluti e nello stile Spielberg, si veda a confronto “Ready player one” (Spielberg, 2018), li ho trovati però, in qualche momento, onestamente troppi.

Abbiamo però detto che il vero spessore dell’opera lo danno i personaggi di contorno ed ecco che all’orizzonte vediamo Anita. Anita è la donna di Bernardo ed ha spina dorsale. Non per l’uomo con cui sta, ma perché lavora per realizzare il suo sogno americano. Tutta la sua forza e vivacità viene fuori nella canzone “America”, che non è solo LA canzone di West side story, è l’inno di tutti i “migranti”.  Se non l’avete sentita né vista ballare, pregasi recuperare subito: le due facce di chi non è più a casa, diviso tra la memoria di un luogo che è rimasto nel cuore e le opportunità ottenute spostandosi. Il tutto in una coreografia coloratissima ed esuberante che invade le strade di New York. (Se vi piace il genere e il contesto, consiglio di leggere il classico del fumetto “New York” di Will Eisner)

La ricerca per chi dovesse interpretare Anita non dev’essere stata una passeggiata: nel ’61 il ruolo fu di Rita Moreno, che ritorna nel film nel ruolo di Valentina in un’operazione simile a quella che fu per Elaine Paige in “Cats” (1981). La signora Moreno, non solo si dimostrò perfetta nel ruolo di Anita ma, per chi tiene il conto dei premi, è una delle 16 persone EGOT al mondo. Rientra cioè in quel piccolo gruppo di persone che in carriera, hanno ottenuto almeno uno dei quattro premi statunitensi più prestigiosi: Emmy, Grammy, Oscar e Tony. Per dirne altri due EGOT sono Audrey Hepburn e Mel Brooks. Il ruolo in questo film è stato coperto da Ariana DeBose, che se l’è cavata alla grande avendo un testimone pesante da raccogliere.

Infine il merito del film è stato svecchiare un classico. Nella mia memoria c’è l’infinita attesa per veder comparire il titolo dell’opera fatta di rettangoli blu su fondo nero in una sorta di revival futurista, forse giusto per il ’61, ma adesso farebbe uscire il pubblico di sala per il tedio. Rimane un film corposo per chi non apprezza i musical in generale e Romeo e Giulietta in particolare però, per tutta la costruzione del contesto e le belle coreografie, vale la pena guardarlo. Soprattutto vale la pena guardarlo in lingua originale dove traspare anche l’accento nel parlato, cosa che viene ovviamente persa nel doppiaggio.

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