di Marta Dore
Capita a volte che il cinema italiano non produca le consuete ben confezionate commedie dolci-amare, più o meno dense di contenuti, ma si avventuri con audacia in spazi più complessi, dove le riprese sono sporche e contaminate da generi diversi e la trama è tutt’altro che lineare. Spesso questi colpi a sorpresa sono frutto del lavoro di registi che sono essi stessi spuri, formatisi non sui set cinematografici ma in altri campi della regia.
È il caso di Pietro Marcello, la cui radice di documentarista emerge spesso nel suo nuovo e coraggioso film, “Martin Eden”, ispirato all’opera omonima di Jack London, le cui vicende sono ambientate da Marcello e dal co-sceneggiatore Maurizio Braucci in una Napoli di inizio Novecento che scivola, sul finire del film, nella Napoli contemporanea con i migranti sulla spiaggia, in una stratificazione temporale coerente con quella dei significati molteplici della narrazione filmica.
Martin Eden, nome bellissimo che Marcello non traduce nella trasposizione del libro di London, è un giovane marinaio, bello, forte e idealista, e del tutto privo di istruzione. La sua vita cambia quando salva un ragazzo da un pestaggio: Arturo è il rampollo di una famiglia alto borghese e per ringraziare Martin lo porta a casa sua. Lì il marinaio conosce la sorella del ragazzo che ha difeso e se ne innamora all’istante. Il colpo di fulmine è reciproco. Elena è bellissima, parla – non si capisce perché – con un marcato accento francese e ama Baudelaire: consapevole della distanza socio-culturale che lo separa dalla fanciulla, Martin decide di studiare e di diventare addirittura uno scrittore. Si dedica a uno studio matto e disperatissimo, gettando nello sconforto la sua stessa famiglia che vive nei bassofondi di una Napoli miserabile e che non capisce questo sogno astruso ed estraneo a tutto ciò che li rappresenta.
La scalata sociale non sarà facile, anche perché Martin scrittore si ostina a scrivere di quello che vede: la povertà, la disperazione e la profonda e imperante ingiustizia sociale di inizio Novecento, temi cupi che non trovano ascolto da parte degli editori, ma nemmeno la comprensione di chi lo circonda e tanto meno dell’amata. Al punto che quando finalmente Martin troverà il successo, sarà troppo tardi e sarà un successo fondato su equivoci fondamentali: gli attribuiranno testi non suoi e significati a lui estranei. Sarà un successo talmente grottesco che viene il sospetto, sul finire del film, che sia tutto frutto di un sogno. O di un incubo.
Martin Eden è interpretato da uno splendido Luca Marinelli, con i suoi occhi selvatici e spiritati perfetti per il personaggio, uno dei migliori giovani attori di oggi, che ha ricevuto la coppa Volpi al festival di Venezia. Le riprese, a tratti nitide a tratti sgranate, sono intervallate da spezzoni di repertorio, immagini di inizio Novecento a cui è stato aggiunto il colore. I vestiti di Martin a volte si accordano a quel tempo, a volte sembrano rubati a un armadio dei primi anni ’70, mentre ci sono inserti di inquadrature che potrebbero essere girate oggi sul lungomare di Chiaia. L’effetto è quello dello spaesamento ed è una delle qualità di questo film amaro, che non concede facili speranze, perché oggi come allora se nasci nel contesto sbagliato le possibilità di ascesa sociale sono ridotte al lumicino.






