News
Libreria Lungomare (Agosto 13, 2025 11:32 pm)
Babbei! (Luglio 22, 2025 7:51 am)
Chiarastella Cattana (Luglio 13, 2025 11:39 am)
Divina! di Tommaso Zorzi (Luglio 8, 2025 9:50 pm)
In cammino di Livia Pomodoro (Luglio 6, 2025 10:16 pm)
Scomode verità (Luglio 6, 2025 9:48 am)
Il quadro rubato (Luglio 6, 2025 9:13 am)
Paternal Leave (Giugno 26, 2025 10:12 pm)
La trama fenicia (Giugno 18, 2025 10:35 pm)

Matilde Solbiati: uno sguardo onirico-surreale

20 Dicembre 2016
3.082 Views
di Cristina Ruffoni

“Cio’ che affascina tutti noi in queste maschere e’ il fatto che esse incarnano dei caratteri e delle passioni che sorpassano di gran lunga la dimensione umana. L’orrore della nostra epoca con il suo sfondo paralizzante diviene qualcosa di tangibile”

Citazione tratta da Hans Richter. Dada. Arte e antiarte Milano. Mazzotta 1955

 

La poetica di Matilde Solbiati ha stratificazioni trasversali di memoria e attualita’, sogno e fisicita’, ironia e mistero, una dimensione quindi, anche psicologicamente multiforme.

Oggetti dell'artista, Camera delle meraviglie

Oggetti dell’artista, Camera delle meraviglie

Se dietro Dada e la Metafisica c’e’ l’angoscia di Rilke: “che l’uomo fra le cose e’ posto come una cosa, infinitamente solo”, in Matilde Solbiati, non c’e’ solitudine ma la  consapevolezza, della decisiva influenza che le nuove forme di comunicazione, trasporto e di informazione, esercitano sulla sensibilita’ e sulla psiche, come gia’ scriveva Marinetti nel 1913: “Conseguente bisogno di comunicare e di sentirsi centro, giudice e motore dell’infinito esplorato ed inesplorato….urgente necessita’ di determinare ad ogni istante i nostri rapporti con tutta l’umanita’ e le nostre vere proporzioni”.

Lo spostarsi assiduo del centro, negli spazi di Matilde Solbiati, e’ una conseguenza proprio di questo orizzonte senza precisi confini, di questo bisogno di “determinare le nostre vere proporzioni” .

Nei  suoi collage assemblati, Matilde Solbiati, ha un repertorio d’immagini ecclettico ma ricorrente: piume, fiori,  conchigle, pietre, volti e insetti, che pone sempre in rapporti nuovi, come elementi non alterati da combinare, in una totalita’ in continuo rinnovamento.

I punti di convergenza tra realtà e sogno, Solbiati, li cerca intorno a se’, nel flusso molteplice delle cose.

Lo spazio dei suoi quadri non solo non ha un assetto geometrico ma neanche una minima flessione di profondita’, superfici che  non trattengono in nessun modo l’oggetto ma servono  solo ad appoggiarlo, a farlo scorrere lungo una dimensione transitoria, che nega il senso del tempo e dello spazio. Quello spazio concreto e tattile, che invece ritroviamo nelle scatole, quelle micro e quelle che sembrano bacheche, ripiani che invadono lo studio, dei palcoscenici intimi e la messa in scena del quotidiano, che ci riportano al Merzbau di Schwitters, al passaggio dall’immagine alla cosa,  dal collage ad un’installazione nello spazio, un work in progress, un’opera d’arte totale. Il senso dello spazio viene sostituito  dal  vuoto sognante delle scatole sparpagliate e accatastate di Warhol.

Perfino Duchamp raccoglie in una scatola,  riprodotte in miniatura tutte le sue opere, nella Boite en valise. Una lentezza importante elogiata da Duchamp e adottata da Matilde  Solbiati, convinta che una produzione abbondante non puo’ che generare medocrita’. Un gioco procrastinato  dall’infanzia, di accumulo e conservazione, una camera delle meraviglie da condividere, l’intimita’ che si spalanca alla collettivita’. E’ il recupero “mitico e concreto” del pensiero pop che propone un effettivo ricongiungimento di spazio e azione, di visivita’ e di teatro.

Una grande pioniera del collage, dell’utilizzo del fotomontaggio che anticipa adirittura il photoshop, e’ stata l’artista Hannah Hoch, che trascende le composizioni dadaiste, fino ad ispirare perfino le metamorfosi di Cindy Sherman. Nelle tue maschere e nei tuoi agglomerati, anche se ti focalizzi piu’ nel risultato d’insieme, piu’ che nel singolo dettaglio, esiste questa permutazione, questo ribaltamento d’identita’ e pratiche d’innesti anatomici tipici della Hoch?

Amo molto il lavoro di Hannah Hoch, sento il suo approccio all’immagine molto vicino nel modo   in cui, univa immagini discordanti, riuscendo alla fine a ricreare una nuova unita’, che nella sua deformita’ in totale armonia, paradossalmente sembrano immagini gia’ esistenti! Quello a cui attingo nelle mie Maschere, che e’ anche il motore che le crea, e’ il forte bisogno di unita’, in una realtà frammentata e difficile da cogliere. Si tratta alla fine, del grande tema dell’Uno che ritroviamo in tutta la storia della filosofia, dai presocratici, agli idealisti, la stessa necessità di cogliere il tutto e di trovare il principio ori- ginario, la domanda e lo stimolo che stanno dietro i miei collages intitolati: “Maschere”.

Un’altra acrobata dell’illusione e manipolatrice ironica della materia, e’ la fotografa Meret Oppenheim, copiata ed emulata da designer, scenografi e scultori di ogni epoca. Prima di passare al fissaggio della  resina, la fase della fotografia delle composizioni dei tuoi collage, deve creare un’armonia totalizzante della superfice interessata ma neppure alterare l’identita’ del singolo soggetto. Come riesci a trovare un equilibrio tra queste due entita’ e processi? Tra particolare dettagliato e composizione in espansione?

Questa e’ semplicemente la storia della nostra vita, come cioe’ combinare noi stessi con tutto quello che ci circonda, la nostra identita’ con la societa’ in cui viviamo. Penso che la ricerca dell’equilibrio sia insita in noi ed e’ cio’ che ci permette di evolvere e di non degenerare negli eccessi. I dettagli sono i singoli elementi che vengono inglobati dalla composizione finale ma che ne sono contemporaneamente la causa e il fondamento.

Maschera, 2014, carta, acrilico, foglia oro, resina, cm 106 x 152

Maschera, 2014, carta, acrilico, foglia oro, resina, cm 106 x 152

La tua  Wunderkamer, e’ fatta anche da un archivio d’immagini prelevate da riviste, libri e documenti. Un repertorio che poi diventa tuo, personale e  privato ma assolutamente cartaceo, manuale non digitale, che esclude il flusso di Internet. La materia cosi’ puo’ rimanere pregnante? Come  nelle tue  forme scure, in bianco e nero, in parte grigie, che risultano quasi come dipinte,  “pittoriche” e fortemente cromatiche.  

Per me e’ fondamentale avere tra le mani qualcosa che possa toccare, di cui ho percezione delle dimensioni, cosa che manca del tutto in Internet. Sfogliare i libri diventa come uno scavo aecheologico, certa di cercare qualcosa ma senza sapere che cosa sto’ cercando e quello che trovero’ e anzi spesso, e’ l’immagine stessa che mi porta sulla strada che voglio esplorare.

L’artista inglese Daniel Hirst, utilizza effetti psichedelici e pirotecnici in un caleidoscopio di forme e colori che giocano sull’effetto sorpresa e di spaesamento ottico e percettivo. Pur essendo il tuo lavoro molto diverso, c’e’ un riferimento all’optical art e all’arte gestaltica, ti riconosci in parte negli effetti psicologici e visivi di queste esperienze?

Se devo essere sincera, la mia arte ha una natura molto introversa e spesso inconsapevole. La certezza che mi guida, e’ che sto’ cercando qualcosa ma non ho mai e non voglio, avere delle idee definitive, sono le immagini medesime, che mi suggeriscono e mi raccontano ogni volta, a me in primis, la mia storia.

Nell’installazione: Repulsion/l’altare del desiderio, c’e’ un richiamo al video artista Nam June Paik e non solo per la presenza dello schermo, ma per l’alternanza di spostamento e fissaggio di quelle immagini e relativi contenuti, destinati ad essere alterati e privati di senso, con la conseguente perdita di orientamento, l’assurdita’ della stasi di un film bruscamente arrestato che riprende poi i  suoi svolgimenti. Gli artisti della tua generazione mescolano linguaggi e tecniche diverse, a volte solo citazioni, all’interno dello stesso processo creativo. Ribellione e idiosincrasia a generi e categorie o libero adattamento alle proprie finalita’ narrative?  

Penso che ognuno abbia i propri istinti e le proprie urgenze, anche se oggi, negli artisti si cerca l’individualita’, una conseguenza e un difetto derivante dalla societa’ dell’io (I in inglese) imperante. Una volta  c’erano correnti artistiche e si accettavano tecniche simili, oggi si vuole sempre qualcosa di non visto, il che e’ piuttosto difficile,  dato la disponibilita’ dell’informazione e soprattutto visto che l’uomo si pone gli stessi interrogativi da millenni, quindi e’ facile trovare risposte ripetitive anche dal punto di vista formale. Per esempio, non so perche’, l’artista che citi usasse quel televisore in particolare, ma posso dire perche’, io ho usato quel televisore. “Repulsion” e’ un’opera che parla di desiderio e lo fa partendo dall’origine di questo sentimento, interpretato come lo iato che si crea alla nascita, una volta che veniamo separati dal grembo materno. Il televisore in questione, appartiene a mia nonna, un oggetto che ho visto in casa quando ero bambina, poi ritrovato nella casa al mare ed e’ parte della mia storia personale, del mio percorso.

Maschera, 2014, carta, acrilico, foglia oro, resina, cm 106 x 152

Maschera, 2014, carta, acrilico, foglia oro, resina, cm 106 x 152

La tecnica dell’assemblage e quella del collage, scrive Barilli, sembrano mosse da una sorta di horror vacui, non possono tollerare che tra elemento e elemento ci siano pertugi di vuoto, respingono  la mediazione dello spazio, non accettano  che esso intervenga a graduare, a scaglionare nella distanza gli oggetti radunati…Nella visione e percezione dei tuoi lavori si corre un simile rischio?

Penso che lo spazio esista a prescindere dal collage, il vuoto permette alla mia opera (in generale) di esserci, io non riempio lo spazio e lo spazio non si crea, ne si distrugge. Una delle categorie con il tempo, senza il quale non potremmo concepire nulla. Quello che faccio io, e’ solamente di spostare cose nello spazio, le raggruppo in un punto e cosi’ facendo,  lascio del vuoto in un altro. Il vuoto non lo vedi nella mia opera ma al di fuori di essa. Ad esempio, nelle pagine ritagliate dei libri, da cui estrapolo le immagini.

Con il tuo  sguardo onirico-surreale molto simile a quello di Max Ernst, avete in comune una tecnica particolare di collage, che a partire dal 1941, lui mette a punto, servendosi come materiale di partenza di illustrazioni ottocentesche, in genere xilografate, ricavate da pubblicazioni come Le Magazin pittoresque o L’illustration. L’artista ne ritaglia alcune parti e le inserisce con gran cura in una nuova composizione in modo che il montaggio risulti dificilmente discernibile. L’immagine ottenuta e’ quindi particolarmente omogenea. Questa tecnica sara’ sviluppata durante il suo periodo surrealista nelle celebri raccolte di tavole stampate intitolate La Donna 100 Teste (1929) e Una settimana di bonta’ (1934). Ti riconosci con le dovute differenze in questo procedimento?

Max Ernst: un importante precursore ed innovatore,  oltre che artista fondamentale.

Molto spesso i temi di fondo dei tuoi lavori, anche se non necessariamente autobiografici, indagano e sondano l’universo femminile con visioni differenti della realtà fondate, sovente con intento umoristico, sulla stranezza e sul paradosso, perfino con richiami tattili e di olfatto, come quando inserisci la polpa dell’ananas, in contrasto con le spine del carciofo. La dolcezza troppo spesso mascherata dietro una corazza di protezione. Ritieni ancora necessaria, questa ricerca psicologica e rappresentazione visiva, in un’epoca e una societa’ dove ancora  si radicalizzano ruoli e comportamenti?

Non saprei se ho capito bene la domanda e quindi a grandi linee, potrei dire, che,  una cosa e’ quello che si pensa e si suppone o si pretende che sia, mentre un’altra, e’ cio’ che si sente e si percepisce, nel senso che a volte, pensiamo di essere piu’ evoluti di quello che realmente siamo e se devo parlare del ruolo della donna,  (tema tra l’altro impegnato, su cui non ho di certo, la dovuto preparazione, se non la mia storia) penso che sia ancora in una posizione ambigua, contraddizioni forse insite  nella nostra natura e questo non posso che esprimerlo nella rappresentazione visiva e narrativa ma al contempo, non m’interessa suscitare mistero o indurre a riflessioni ermetiche, piuttosto il contrario, sbrogliare, districare gli inganni. La mia ridondanza di immagini, di colori, di oggetti, corrisponde a un alleggerire, a una sottrazione per purificarlo da grevi preconcetti e falsi silenzi.

 

 

Matilde Solbiati - foto di Riccardo Banfi

Matilde Solbiati – foto di Riccardo Banfi

 

 

 

Leave A Comment