di Danilo Longano
Aprile, dolce dormire. Le stagioni cambiano. Il tempo non è più come una volta. Non fa abbastanza freddo, non piove abbastanza, non fa abbastanza caldo, fa troppo caldo. Sarà l’umidità, il buco nell’ozono o l’inquinamento. Ma almeno, ci sono segnali di ripresa. A quanto pare, anche la musica torna a vendere. Eh si. Così pare. Leggo entusiasmanti articoli su vinili, il ritorno dell’analogico, lo streaming che vende. Accidenti, quasi le case discografiche possono tornare a dormire sogni tranquilli.
Di una cosa però, sentiamo parlare molto poco. Ma le canzoni qui, chi le scrive? Esistono ancora?
Spendo tanto tempo ad ascoltare e creare, tagliare e cucire. Ancora mi sento lontano dal mio meglio. E’ bella la sensazione di avere ancora davanti la produzione più bella, la canzone più bella da scrivere, il concerto migliore. Certo nel pieno rispetto di quello che si è fatto in precedenza.
Vivo in mezzo a musicisti, professionisti e non, ma quando si tratta di ascoltare, non mi fido che di chi ascolta. Per questa prima parte di articolo ho deciso perciò di scrivere qualcosa in merito all’ascolto e alla riproduzione sonora.
Apro il caro manuale di acustica dell’università.
Fino a metà del seicento a momenti, pensavamo che al suono non servisse neanche l’aria per propagarsi. Ora che la tecnologia ci permette di riprodurre e registrare il suono nella maniera più impensabile, non sappiamo bene che farcene. Chiudo il libro sconfortato.
Tanti amici, tornano ai vinili, ai vecchi amplificatori a valvole, convincendosi che il suono è tutta una questione di calore, di familiarità, di vicinanza al mondo reale. Tecnicamente, cerco di spiegarmi come sia possibile che sistemi di riproduzione così poco lineari, siano apprezzati così tanto e così tanto ricondotti a somiglianze coi suoni naturali.
Al giorno d’oggi, sfruttiamo tutta la banda di frequenze dell’udibile per creare e riprodurre musica. Qui c’è una connessione tra tutto. In natura, non esistono suoni che coprono questa intera banda. Neanche nei concerti dal vivo, quelli non amplificati. Neanche nelle schitarrate da spiaggia. Tutto quello che la tecnologia ci sta dando, dovremmo in realtà toglierlo.
In realtà, i nuovi mezzi, se ben sfruttati, danno opportunità a persone come me di avere una tavolozza di colori ancora più grande, di avere una cassetta di strumenti di precisione.
Senza dimenticare che la finalità è ascoltare e godere. E l’idea vale molto più del gesto tecnico.
Ben venga perciò il ritorno al vinile. Che ci permette di passare ore in compagnia ad ascoltare dall’inizio alla fine un disco, per quello che è. Dalla prima all’ultima canzone, facendo attenzione a girare i lati, a mettere la puntina. Un ascolto quasi attivo direi.
Ben vengano i giradischi, le valvole e tutto ciò che ci fa rimanere attaccati al lato emotivo e passionale della musica. Ben venga anche lo streaming però. Che da la possibilità a tanti di far sentire la propria voce e a chi ha voglia di sentirla, di non svenarsi.
La musica dovrebbe davvero essere patrimonio pubblico. Già immagino battaglie per i cataloghi dei Beatles come per l’acqua.
C’è poca soggettività in una bella canzone, in un bel disco, in una bella opera. E misurandoci con l’arte che affrontiamo, possiamo crescere con essa.
Io non ho mai amato il jazz. Ho dovuto studiarlo qualche volta. Mamma mia, gli incubi. E anche ascoltarlo, una tal noia. Ben sapendo ovviamente dell’apporto che ha dato alla musica dal novecento in avanti. Mai digerito però.
Così, mi sono sempre detto che magari, un giorno avrei capito quella musica. Beh, ve lo dico, non la capisco ancora nonostante l’enorme rispetto che porto verso di lei.
Marzo 2016, seguo qualche lontana amicizia che dall’Italia si è spostata all’estero. Si parla di conoscenti più che altro. Seguo i social di questa ragazza che studia, compone, crea, viaggia. Bella esperienza penso. Ma vorrei sentire qualcosa. Lei mica studiava Jazz?
Cominciamo bene.
Esce il disco. Una band. “Marta Rosa”. Forse è una solista con band, non ho ancora capito.
Marta, leader della band, conoscente di qualche anno addietro.
Senza neanche ascoltare le preview e guardare il video compro il disco in digitale. Ammetto, mi hanno affascinato molto l’artwork e le grafiche. Per me fanno sempre parte di una ricerca artistica, anche se non fondamentali.
Temevo però di affrontare un grande scoglio culturale. E mo come la mettiamo col Jazz?
Schiaccio Play.
Trovo una voce delicata e un timbro gentile. Tecnica quanto basta. Chitarre meravigliose, sezione ritmica essenzialmente solida. Qua e là tastierame di colore che non guasta mai.
Scelta del singolo molto intelligente, suoni che convincono. Ci siamo, al secondo brano mi sento salvo. Siamo nel pop. Tante influenze, ma è pop.
Ancora una volta, esco dalla mia italianità e mi tocca il disco in inglese. Ma si, senza barriere e confini no?
Non ho ricordo della voce di questa ragazza quando la conoscevo. Le mie orecchie sono già innamorate, mi ricorda stupidamente e teneramente Bjork, ma sono contento non ci siano tentativi di imitazione.
Molto bene la scrittura, i brani passano veloci, nonostante si senta molto l’impegno messo nel costruire melodie non scontate e mai banali. Dal canto mio, non posso non sottolineare che ci sono vie di mezzo più efficaci e nel contempo estremismi che avrei esplorato. Ma è questo il bello, il disco mi stimola. Comincio a fluttuare nella musica, a lasciarmi andare e subito mi inserisco tra le note e gli strumenti, immaginando di spostare questo e quello, aggiungere quell’altro.
Bello. Ci siamo. Sono preso.
Dal loro sito leggo qualche parola, tradotta dall’inglese a proposito dei contenuti dei testi. “Le canzoni del disco, scritte tra Milano, Ghent e Khatmandu, parlano di come il mondo esterno si connetta a quello interiore”. Ecco, non so esattamente da dove scaturiscano queste connessioni, cosa ha smosso l’artista ha scrivere quelle parole e farne dei testi. Ma sono colpito dalla semplicità dei concetti, dalla freschezza del linguaggio e condivido questa voglia di leggerezza recondita.
Gustatevi il singolo, “Shoes, Rocks and Boxes”, simpatico ed essenziale. Non manca lo spessore irriverente, “Walking Hats” fa sorridere e sognare.
Sono molto affascinato oltretutto dalla melodia di “Here Lies Love”, la trovo davvero incantevole, il testo scorre veloce e quasi mi sfugge. Il territorio anni novanta di “Life When the Season Fades” spazza via ogni dubbio riguardo al Jazz. Ci siamo. Le sonorità che amo, del rock alternative ci sono tutte. Forse stancante a tratti, ma è ben posizionata all’interno della tracklist, mi sembra corretto dare tensione in questo punto.
“Some days” ha un ritornello che mi prende molto, mi ipnotizza con quella calma malinconica delle modern ballad. Subito mi viene da pensare che avrei davvero esasperato i momenti elettronici e rock, estremizzando la tensione. Da chitarrista, ammetto che il solo mi sembra forse anche fuori luogo. Qualche nota in meno e più intensità non avrebbe guastato, giusto per esaltare le qualità dell’arrangiamento ovviamente.
E qui viene il bello. Sento un ukulele. Bello. Un po’ scordato. Fa niente, è di moda. Simpatica. Ma non posso non notare l’infinito momento di dimostrazione tecnica. Lodevole certo, quanto forse troppo lunga. La canzone che ammetto mi ha preso meno.
Adorabile invece “I Don’t wanna marry”. Una canzone da viaggio, in macchina, che concede lunghi respiri dal finestrino e accelerate improvvise. Eh si. Il testo ci azzecca proprio.
Per l’ultimo brano, con cui chiudo anche l’articolo, vorrei lasciare a voi il giudizio. Io preferisco ascoltarla e lasciarmi cullare.