di Danilo Longano
Viviamo davvero in anni frenetici. Alti e bassi che scaraventano la società dalle più alte vette, ai più profondi abissi. E’ difficile notare la luce. Pochi si accorgono ormai delle piccole cose che offrono un bagliore lieve, tenue, impercettibile.
Niccolò Fabi, classe ’68, cantautore romano, nel maggio 2016 ha pubblicato un disco di nove tracce, “Una somma di piccole cose”.
Ho un grande amore da sempre per i cantautori, di qualsiasi nazione e colore. Forse è una passione derivata dalla mia educazione musicale, forse è semplicemente la bellezza di vivere il suono e le parole che diventano una cosa sola.
Niccolò, si è divertito per una volta a fare un disco senza velleità produttive, senza limiti imposti da una metodica scelta del materiale artistico ai fini commerciali.
Un appello a tutti i giovani che iniziano a comporre. L’espressione musicale e artistica non può avere compromessi dettati dalla moda. Gli arrangiamenti, i suoni, la veste delle canzoni può essere assoggettata a qualsiasi influenza. Ma i contenuti, amici miei. Quelli non ve li da nessuno. Sono tutti dentro di voi e nella vostra bravura ad esprimerli. Gente come Niccolò Fabi ha impiegato vent’anni per potersi permettere un disco così, e a quanto pare di dati positivi di vendita e di affluenza ai concerti l’hanno ripagato.
Niccolò canta, sogna, vomita pensieri forti, immagini fulminee di orizzonti persi nell’aria malinconica che circonda i periodi più malinconici dell’esistenza. Abbraccia temi sociali, chiama in causa l’amore senza uccidere l’essenza poetica, ricordandoci che anche l’amore è stato, è e sarà universale. Un disco piccolo, nato in una stanza di una villa campagnola. Scritto, suonato, prodotto da una sola persona. E’ tutto li, in un giro di boa, quando si teme di non avere più nulla, è li che si riesce a esprimere davvero se stessi in tutta la nudità possibile.
“Una somma di piccole cose” canzone che da il titolo al disco, e ci proietta in un racconto autentico, di autodefinizione dell’uomo sociale contemporaneo, un cammino che lascia poco spazio allo scoraggiamento. La chiamata a fare qualcosa di bello, importante. Di vivere davvero.
Tema ricorrente nel disco. L’amore che provo per questo tipo di atmosfere musicali, mi impedisce di andare al di la del lato emotivo inizialmente, perché tutto mi arriva dritto allo stomaco. Provato mai la sensazione?
Chiuso in macchina, in coda, ascoltando “Ha perso la città”, come si fa a non provare nulla?
La stessa rabbia sorda e sporca che mi colpisce quando nelle mie orecchie riecheggia “Non vale più”, ma è solo il “sogno di un uomo che tende la mano, la speranza reale di una sveglia collettiva”. Di canzone in canzone, passando tra ballate agricole, cover d’autore di interessanti gruppi emergenti, romantiche canzoni al pianoforte ispirate da relazioni vive nelle orecchie e nel cuore di chi ascolta.
Nove canzoni da assaggiare. La giusta quantità per un disco povero di arrangiamenti e ricco di emotività. Si sentono molto influenze che fanno il capolino, da Damien Rice, Ray LaMontagne. Non so neanche se lui li ascolti, ma alle cose si arriva in tanti modi diversi.
Dal punto di vista tecnico è un disco sorprendente. Registrato con pochissimi mezzi, con un computer, una scheda audio (mezzo che ci permette di traslare segnali audio al computer), qualche microfono e una manciata di strumenti. Ci fa capire di quanto i limiti tecnici ormai esistano solo nella nostra testa. Non posso dire che sia un disco con suoni sconvolgenti, ha i suoi limiti, ma è tutto precisamente li dove deve stare. Nudo e crudo. Solo un piccolo disappunto personale, avrei addirittura evitato di fare così tanto uso di editing sulle voci, lasciando quelle micro-imperfezioni che fanno della voce uno strumento unico.
Insomma, lo ammetto. Il disco mi ha subito rapito. Ascolto opinioni in giro, piace a tanti, ma fatica ad arrivare. Fatico a capire. Tutti mi dicono che è faticoso da ascoltare, che è troppo malinconico, triste. Io non riesco a dare connotati negativi all’emozione che scaturisce una bella canzone, proprio non riesco.
Come dice Niccolò, lasciamo tutto fluire, distendiamo le vene, aspettiamo che il respiro sia regolare. Non è necessario affannarsi. La bellezza trionferà sempre, anche nei momenti più bassi del genere umano.
In seconda battuta, vorrei introdurvi a una band di carissimi amici e collaboratori, per un genere che non è decisamente di mia competenza recensire. Sarò breve e farò giusto una piccola presentazione perché non è nelle mie capacità descrivere lavoro di chi conosco così bene. Non è facile separare l’amicizia.
Rootical Foundation, band della provincia milanese, in attività da ormai dieci anni. Quest’anno festeggiano l’anniversario con un tour autocelebrativo e un EP moderno e concreto. Adoro l’unione delle radici di un genere che ormai ha sessant’anni, col concetto di band europea, con batterie da tiro, basso aggressivo e potente, voci armonizzate. Tanti storcono il naso, indignandosi per la distanza con il reggae vero delle origini.
Io sinceramente ho solo le mie orecchie da offrirvi. Matteo Riccardi, il cantante del gruppo, con onestà e sapiente scrittura, ci guida attraverso quattro canzoni intense, dai temi importanti. La sua voce forse ha qualche limite dal punto di vista tecnico, ma non manca di stile e umiltà. La band d’altro canto, è solidissima. Dalla sezione ritmica tonante e precisa, alle chitarre precise e stimolanti, ai cori caldi e accurati. Belle le parti di fiati, molto trascinanti i riff. Una menzione al lavoro di cesellatura svolto con i synth e le tastiere in generale. Buoni i suoni, è un ottimo mix tra analogico e digitale, ma personalmente manca il saper osare e spingersi oltre il mix ben equilibrato e di impronta classica, magari raggiungendo spazi più ampi e provocatori in termini di suono.
Seguite i Rootical Foundation sui canali social per saperne di più.
Con questo è davvero tutto, scrivetemi, mandatemi qualcosa da ascoltare, che qui si ha sempre fame di bellezza.