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INTERVISTA A IAIA FILIBERTI

19 Dicembre 2016
3.126 Views
a cura di Erika Lacava

casa-Iaia-Filiberti 

Incontriamo Iaia Filiberti nella sua casa-studio milanese e ci ritroviamo subito immersi nel suo immaginario particolarissimo. Artista poliedrica di difficile catalogazione, Iaia Filiberti spazia tra progetti installativi, illustrazione e video art in cui si riconosce sempre, come filo conduttore, la finezza ed essenzialità di rappresentazione unita a una vena di sottile ironia.

Con leggerezza e lucidità l’artista crea icone della contemporaneità lavorando su tematiche diverse, reinterpretate da un punto di vista intimo, personale, lucido, mai politically correct e necessariamente contrario a qualsiasi cliché. Tutto il suo lavoro ha sempre al centro una donna. Oltre a Nimby e Framed, il lavoro a cui è strettamente legato il nome di Iaia Filiberti è Pepita, di cui sono attualmente esposte, fino al 22 Dicembre 2016, alcune tavole nella collettiva “Bitter Sweet Simphony” a cura di Marina Mojana alla Galleria Campari di Sesto San Giovanni, in un percorso in cui si eleggono a protagoniste sinestesia e contaminazione tra le varie discipline.

Iaia Filiberti ha appena inaugurato a Gallarate, con la Galleria Giuseppe Pero e Il Chiostro arte contemporane, la mostra “Seidimano”, un vero e sensuale percorso esperienziale nell’intimità dell’artista.

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Iaia Filiberti, iniziamo con una domanda storico-biografica. Hai una laurea in diritto penale: come coniughi il diritto con la tua arte?

Ho studiato diritto in Italia ma non l’ho mai esercitato e ho studiato arte a Bruxelles. Come coniugo queste due realtà così diverse tra di loro a dir la verità non lo so, ma non mi pento del mio percorso perché laurearmi in giurisprudenza è stata una mia scelta. Credo che questo, soprattutto la specializzazione in diritto penale, mi abbia dato molto rigore nel lavoro, il rigore nell’analisi. Tutto il mio lavoro ha alla base molta ricerca: Framed Nimby, Pepita ed il resto. C’è sempre un grosso studio alle spalle, un po’ da secchiona in qualche modo… Il mio lavoro non nasce mai su di un piano prettamente epidermico o empatico. Il legame con il penale si vede anche nel fatto che rimango un’innamorata dei thriller, i più violenti che esistano! Lo si vede anche in Pepita… Io sono una persona molto solare, ma l’anima del thriller è dentro di me! 

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“Pepita – Rocking New York”, 80 x 110 cm, 2015

Un’altra cosa che incuriosisce nel tuo percorso è la creazione di una App su Pepita.

Ecco, dell’App non voglio proprio parlare perché credo che potrei solamente dire che è stato l’unico mio lavoro fallimentare! La mia intenzione era di portare Pepita nella parte telematica del gioco, ma Pepita ha delle corde intellettuali che qui non sono riuscita a trasportare. D’altro canto io non sono per niente “internettiana” e “social media” e mi sono scontrata con qualcosa che non è nella mia natura. Lo dimostra il fatto che io non ho i vostri smartphone, io uso ancora un Nokia giurassico, quello da sedici euro! Rimangono tutti sconvolti quando lo vedono, mi dicono “Iaia, aggiornati”. Io non posso neanche installare Whathsapp! Una persona che decide di tenere questo telefono inevitabilmente non può creare bene una App!

 

 

Vediamo ora di parlare di successi! In Italia hai esposto sotto la curatela di Gabi Scardi, Bartolomeo Pietromarchi, Elena Del Drago e in luoghi prestigiosi come la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, lo Spazio Oberdan, il Maga, il Pecci, la Fondazione Olivetti. Ora è attualmente in corso una tua mostra al Museo Campari. In che modo queste collaborazioni prestigiose hanno segnato il tuo percorso espositivo? I curatori ti hanno aiutato a sviluppare e indirizzare meglio il tuo lavoro?

I curatori che hai citato, come molti altri, sono persone che stimo e che mi stimano, ma nessuno per me è stato così fondamentale. Coloro che sono stati fondamentali e che devo ringraziare davvero sono i galleristi Paolo Bonzano e Giuseppe Pero, che mi hanno promosso per primi con intelligenza e lungimiranza.

Sono stati loro i primi a credere nel tuo lavoro? In che anni siamo?

Siamo alla fine degli anni ’90. Andavo e venivo da Bruxelles e ho fatto la mia prima mostra, una personale, sotto la curatela di Gabi Scardi da Paolo Bonzano quando aveva ancora la galleria a Trieste con la madre. Dopo pochissimo è arrivata la seconda personale da Giuseppe Pero. Ho iniziato subito con le personali, sì, sono stata molto fortunata!

Negli anni hai esposto all’estero in diverse collettive e personali, a Miami, New Delhi, al Mube di San Paolo, al Mocak di Cracovia. Ho visto che il tuo sito è interamente in inglese. La tua proposta artistica si indirizza quindi prevalentemente a un pubblico internazionale?

Io sono totalmente italiana e sono fierissima di esserlo. La scelta dell’inglese è stata una scelta più di comodità di fruizione che di appartenenza. In italiano mi sembrava più limitante… inoltre una parte di questo lavoro è stata esposto prima all’estero e successivamente in Italia, quindi era più corretto avere i testi nella lingua “originale” per cui sono stati creati.

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Una delle opere del progetto “Framed”, “Loretta Young”, 50 x 50 cm, 2012

Qual è il tuo rapporto con l’estero e , di contro, il tuo rapporto con l’Italia?

È come se all’estero mi sentissi più libera. Si ha sempre bisogno di dimostrare qualcosa prima all’estero per poi essere riaccolti in Italia… Negli ultimi 4-5 anni le mie occasioni di esposizioni più interessanti e importanti sono state all’estero, nei musei e nelle istituzioni pubbliche, oltre che nelle fiere. Ma l’ambiente nativo del mio lavoro rimane l’Italia. Ho scelto di vivere a Milano, nella mia città natale, e penso che non vorrei mai più vivere altrove.

Qual è l’accoglienza del pubblico? Quali lavori piacciono di più tra Pepita, Framed e Nimby, per citare solo i lavori più rilevanti?

Io non riesco mai ad avere una via di mezzo: o sto molto simpatica o per nulla. Il ventaglio di apprezzamento è abbastanza ampio, ma, nonostante gli ultimi lavori, Pepita rimane un bell’osso duro, viva, scalciante e molto presente! L’altro lavoro che ha girato tanto è stato Framed, un lavoro molto importante realizzato in collaborazione con l’artista italo-brasiliana Debora Hirsch.

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Installation view della mostra “Framed”, Room Gallery Milano, VM21 Roma

Com’è nata la collaborazione con Debora Hirsch e qual è l’aspetto che vi accomuna, pur nella diversità espressiva? Avete fatto altri progetti insieme, oltre a Framed e ne avete altri nel futuro?

È nato tutto in modo casuale e velocemente. Prima ci salutavamo appena, poi un giorno abbiamo bevuto un aperitivo insieme e abbiamo iniziato subito a lavorare. Io non avevo mai collaborato con nessun altro artista né avevo intenzione di farlo, e per lei valeva lo stesso. E stato per entrambe un po’ un coup de foudre. Sicuramente parte di questa miscela molto ricca è anche l’amicizia profonda e vera che oramai ci lega. Viste le forti personalità di entrambe, una collaborazione solo sul piano lavorativo non sarebbe stata possibile. Abbiamo fatto una grossissima ricerca per il progetto Framed, esposto sia in Europa che in America da Bernice Steinbaum Gallery.

A questo è seguito l’altro mio lavoro con Hirsch, Nimby, ora esposto al Mocak a Cracovia, uno dei musei più dinamici e coraggiosi, e da poco abbiamo terminato di montare un video un po’ al confine con il cortometraggio, girato in una fabbrica di sex toys a Brema. Si chiama “Before nightfalls”. È ancora totalmente inedito a livello artistico perché l’abbiamo inviato ad alcuni festival di cinema. Accanto ai lavori in coppia, entrambe continuiamo nei nostri progetti singoli in maniera indipendente.

Il risultato finale di Framed è molto pulito, essenziale, tanto da non sembrare il frutto di due menti separate. Come è nata l’idea? A chi delle due si può attribuire di più il soggetto e a chi la parte di rappresentazione figurativa?

Framed nasce da una collezione di vecchissime foto di Hollywood della nonna di mio marito, di quelle che ti regalavano negli anni ’40. Mi sono state affidate in una vecchia scatola di biscotti con la raccomandazione “Fanne buon uso”. All’inizio non avevo pensato ad un uso artistico, ma solamente alla mia passione per il cinema, soprattutto per il periodo della Golden Age hollywoodiana. Con Debora abbiamo aperto la scatola e abbiamo iniziato subito a lavorare insieme: non si può distinguere chi detiene di più la parte di ricerca e chi quella di realizzazione materiale del lavoro, nulla è delegato a una delle due perché riusciamo a pensare e lavorare insieme, ad essere in armonia. Non si sente l’attrito di chi vuole prevaricare: noi lavoriamo come un unicum, pur avendo due personalità completamente diverse nei nostri lavori propri.

PEPITA-PISTOLAParliamo ora di Pepita. Le illustrazioni da cui deriva il video “Pepita is on” hanno un clima emotivo nettamente diverso da quello del video “Pepita is dead”, più cupo e angosciante. Entrambi sono accomunati dalla stessa difformità di prospettiva: un personaggio dall’aria ingenua, sorpresa dalla vita che a tratti assume atteggiamenti psicotici o aggressivi. Il montaggio dei video, fatto di piccoli spezzoni interrotti e accostati l’uno all’altro, contribuisce a dare un senso di frammentarietà al lavoro, una sensazione di instabilità e precarietà in cui si fa fatica a distinguere il reale dall’illusione. Possiamo definire i tuoi video “surrealisti” o “dadaisti”, in un’accezione aggiornata e contaminata da uno stile glamour anni ’70-’80, o hai altri riferimenti artistici come predominanti?

“Pepita is dead” e “Pepita is on” possono suscitare emozioni diverse. La cosa era voluta e non a caso l’una è un cartone animato, l’altra un essere umano. In “Pepita is Dead” è come se avessi voluto concentrare la parte più surreale di Pepita, che invece nel cartone animato è più latente: qui traspare di più la sua follia intellettuale. In “Dead” l’uso di personaggi reali dà una connotazione di follia emotiva e fisica.

“Pepita is dead” è un’Alice nel paese delle meraviglie vintage anni ’70: è girato in un luogo estremamente claustrofobico come la sala degli specchi di un lunapark. Ci sono personaggi deformati, dal carattere mostruoso, che appaiono e scompaiono. La deformazione della persona è la parte angosciante di questi sogni, che arrivano fino al delitto immaginato.

Una cosa che manca completamente nel “Pepita” cartone, che non riesce a trasparire fino in fondo, è il fatto che Pepita sia anche donna, e si concretizza nel suo sogno di uccidere per poi venir salvata da due poliziotti che con la loro forza e sensualità la posseggono. Per Pepita questo è un sogno, un sogno erotico… perché le succede raramente…. C’è una carnalità surreale in “Pepita is dead”, che non può esistere nell’altra Pepita, che non si può trasmettere.

Nel video di “Dead” ritroviamo la scena della palla rossa che compare anche nell’animazione “Pepita is on”. La palla sembra avere la funzione di riportare la protagonista alla sua infanzia, come un oggetto transizionale di distacco dalla fase simbiotica con la madre e di presa di coscienza dell’esteriorità del mondo. Che ruoli hanno la palla rossa e le bambine, con richiami a Kubrick, in questi video?

Verso la fine di “Pepita is on” Pepita lascia il luogo desolato del suo grande ufficio, in cui è solo una delle mille impiegate, e incontra la piccola Pepita che prende la palla e va verso il mare. Si tratta di un gesto di libertà solo apparente, perché immediatamente dopo l’immagine va in loop e ritorna all’inizio del cartoon in cui Pepita è attaccata a un biberon (il capezzolo di sua madre) che continua, nonostante la sua età adulta, a trattarla come una bambina con incessanti reprimende. È un circolo vizioso, il suo limite e la sua catena, ma anche la sua bellezza e fragilità.

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“Pepita – Anarchiste”, 70 x 100 cm, 2004

Pepita è ambigua, con un occhio grande, spalancato, e uno molto piccolo, impaurito.

In questa rappresentazione c’è la dicotomia della vita, del sentire. L’occhio immenso, vergine, l’occhio del bambino ha in sé una sua grande bellezza e ingenuità, che se persiste in una persona più adulta la porta a sembrare sciocca, per tutti gli ostacoli in cui può cadere. Questo è l’occhio maestro che può sbagliare ma che tenta sempre di guardare oltre. Nel surreale si possono trovare de momenti meravigliosi!

L’occhio più piccino fa parte del reale, del tangibile. Non è vero che questi due aspetti siano sempre in contrapposizione! A volte, quando trovano il loro momento di equilibrio, possono diventare delle bombe atomiche di forza, perché è come se ci fosse il perfetto equilibrio tra il cuore e la testa. Questo occhio piccolo non è sempre negativo, non è la banale, meschina realtà. La realtà può anche essere molto bella, basta solo riuscire ad innaffiarla con l’altro occhio più grosso!

Le scene di Pepita sono tutti episodi singoli o fanno parte di sequenza più ampia? Perché sono spesso legate alla mitologia o alla storia?

Le mie Pepitas sono interamente attuali, nascono da osservazioni della realtà, che poi diventano tematiche. C’è la Pepita abbandonata, quella insoddisfatta di sé che si vuole rifare il corpo. Ma anche il San Giovanni, San Sebastiano, Giovanna d’ Arco, Circe, la Salomè, l’Anarchica, il tappeto volante. L’ultima serie nasce dal voler catturare questo momento storico molto difficile, che crea orrore, del terrorismo quale è l’Isis. La storia ha i suoi cicli e a volte sento il bisogno di un passato dal quale prendere spunto e sentirmi più tranquilla e protetta. La mia esigenza si appoggia all’iconografia del passato per poi essere riattualizzata in quello che ora più mi colpisce e ha un senso.

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Falling Candies, 80×110 cm, 2015

 Come accennavamo prima, la palla dei due video di Pepita è rossa, e questo è l’unico colore che compare, a tratti, nelle tue illustrazioni. È un colore emotivo, viscerale, il colore della lotta, della guerra, dell’amore.

Ci sono dei rarissimi accenni al colore nelle tavole di Pepita, che sono sempre disegnati a china, bianco e nero secco secco. Uso il colore pochissimo e quando lo uso è perché sento il bisogno di sottolineare un’emozione. In “Giovanna d’arco” Pepita ha la gonnellina che si alza un po’ e lascia intravedere il triangolino della mutandina rosa, simbolo della femminilità, mentre in “Falling candies” Pepita, in una riattualizzazione del “Sonno della ragione” di Goya, sogna le bombe a forma di caramella per cercare di addolcirle.

C’è un solo caso in cui si esce dalla scelta di un solo dettaglio colorato ed è nel “Ratto delle sabine” in cui Pepita si auto-rapisce, ed è sia centurione che Sabina, è tutte queste figure contemporaneamente in uno sdoppiamento di personalità in cui si vede la sua grossissima parte egoica. Qui le gonnelline sono tutte di colore diverso per rappresentare le sabine, tutte diverse.

Pepita ha una vita lunghissima, 15 anni di storia. Contiene ed esaurisce in sé tutto il tuo mondo dell’illustrazione o ci saranno altri personaggi in futuro?

Io penso che non ce ne saranno. A volte mi è stato chiesto di affiancare un fidanzato a Pepita, ma non si può, lei nasce così. Al massimo ha un cagnolino! Penso che non ci sarà mai un’altra Pepita. Ora ho tantissima voglia d’altro, per esempio di girare un film, un lungometraggio. Ho appena terminato il mio nuovo lavoro “Seidimano” che mi sta dando tanto. Dal punto di vista dell’illustrazione, del disegno puro, vorrei che Pepita mi accompagnasse per tutta la vita, come una parte di me stessa, fino a quando diventerò vecchietta e, soprattutto, fino a quando avrò qualcosa da dire. Living and kicking FOREVER!

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“Pepita tira-teste”, 60 x 40 cm, 2004

I lavori di Iaia Filiberti di cui abbiamo parlato si possono trovare a questi link:

 PEPITA:

http://www.iaiafiliberti.it/pepita-is-on-video/

http://www.iaiafiliberti.it/pepita-works/

FRAMED:

http://www.iaiafiliberti.it/framed-works/

 

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