Di Noemi Stucchi
La lettura scorre veloce, il ritmo è incalzante e pieno di colpi imprevisti. Dall’altra riva è l’ultimo romanzo di Emmanuelle De Villepin edito da Longanesi. È il racconto di Nora che alla morte del padre lascia la Toscana per tornare in Normandia. Dopo quarant’anni d’assenza, Nora si trova a dover fare i conti con quel tempo lontano che aveva cercato di dimenticare.
Di fronte all’abbandono della madre, a un lutto imprevisto come un pugno allo stomaco e all’incapacità di un padre di riuscire a far fronte alla vita, c’è chi scappa e chi invece sceglie di rimanere. Ad esserci sempre stata è Apolline, la sorella sulla quale Nora potrà sempre contare.
Ritornando nella casa in cui era cresciuta da bambina, Nora conosce Cal che è stato per suo padre tanto quanto un figlio e ora è per lei come un fratello. Paradossalmente, la morte del padre è un nuovo punto di inizio: il fiorire di un nuovo nucleo familiare e il ricongiungimento di Nora con il proprio rimosso, in un dialogo tra presente e passato.
In quella casa d’infanzia piena di ricordi, l’autrice dona voce a oggetti misteriosi: un diario, una scatola di biscotti arrugginita e una cartolina. Viene così riportata alla luce una storia dimenticata e mai detta.
Con il ritrovamento del diario della madre, le due sorelle riscoprono quelle motivazioni che l’hanno portata ad abbandonare i figli e il marito per seguire quell’amore folle e tormentato, non privo di colpi di scena per il lettore. Nello stupore di una simile scoperta, vengono ristabiliti i legami di un tempo. È Nora a rivelarne l’impatto:
«Non era il nostro segreto, né la nostra storia d’amore. Eravamo cresciute e ciascuna di noi aveva una vita propria (…) Eppure, quella rivelazione annullava tutto quello che era avvenuto in quegli anni e ci risospingeva indietro, nei corridoi del tempo (…)».
È così che alla voce narrante di Nora si affiancano le parole di Nadège, provenienti dallo scorrere delle pagine del passato. Davanti a una sincerità spiazzante non si può che avere compassione per quella donna «posseduta dal terrore di deludere o dall’impossibilità di difendersi se non scomparendo».
Nadège rivela come i sentimenti le arrivino “ovattati” nell’incapacità di rivestire il ruolo di moglie e madre. Ormai anziana si mostra in tutta la sua fragilità: «Ci sono stati dei feriti, non potevo far finta. Avevo partorito tutta la falsità della mia esistenza». Verità dure che non riescono a essere viste come colpe, perché ognuno ha la proprie verità, una propria scatola dei segreti che deve essere aperta.
Il ricordo va a quella scatola dei biscotti bretoni di ferro, arrugginita ai bordi e nascosta sotto al letto. In un gioco di bambini come “la scatola dei segreti” è Mathieu a rivelare come «ognuno deve custodire i suoi segreti».
«Ma che cosa ci tieni là dentro?»
«I miei segreti, e tu devi solo fabbricarti i tuoi, tutti per te.»
«Ma come si costruiscono i segreti?»
«Prendi una cosa che gli altri non conoscono e la nascondi.»
«Tu di sicuro hai delle cose che gli altri non conoscono.»
Una cosa che nessuno conosce è la storia che si cela dietro alla cartolina con la riproduzione del quadro “L’isola dei morti” di Böcklin. È il pezzo mancante del puzzle, l’elemento di congiunzione tra Nadège e il suo destinatario. A distanza di anni, quella cartolina riuscirà a creare un legame anche con Nora tanto da indurla a cercare un contatto con la madre attraverso quel quadro, la seconda versione oggi custodita al Metropolitan Museum e commissionata dalla Contessa di Oriola nel 1880.
«Cerca negli angoli più bui della tua memoria. Cerca nelle pieghe e nelle rughe. Non ci saranno cerimonie d’addio, né lacerazioni. Ma cerca ancora: in tutto quello che hai vissuto, in ogni grano di polvere della tua esistenza, è sigillata una parte di eternità».

Emanuelle De Villepin:





