di Marta Dore
Quasi non ci ricordiamo più di come si stava quando non c’erano gli smartphone. Quando ogni momento di vuoto era vissuto come tale e lo si trascorreva guardandosi intorno, perdendosi in fantasticherie, lasciando scorrere il tempo senza la frenesia di doverlo riempire di contenuti, immagini, contatti, azioni utili. C’era chi si metteva a leggere il giornale o il capitolo di un libro, chi si sedeva al pianoforte, chi prendeva in mano la chitarra, chi faceva due passi, chi semplicemente osservava ciò che aveva intorno.
La vicenda di Chiamami col tuo nome si svolge nella splendente campagna del Cremasco nell’anno 1983, in estate, stagione di lunghi intervalli sospesi, che al tempo non venivano riempiti da uno sguardo allo schermo del cellulare, da un like messo per noia, da uno scatto tanto per fare, da aggiornamenti continui sui pensieri minimi dei mille mila amici, molti nemmeno mai visti, che accumuliamo sui social media. L’atmosfera straniante di questo bellissimo film di Luca Guadagnino per me deriva anche dal contesto rappresentato, che ci appare familiare (gli anni Ottanta non sono un’altra epoca, i vestiti erano più o meno gli stessi, così come le parole, il cibo, le stagioni), dove tutto è vissuto e noto, ma che insieme risulta anche così strano, proprio perché il nostro modo di vivere gli attimi che separano gli impegni è stato ormai stravolto e quel passato vissuto ci appare un poco straniero.
Certo, straniante è soprattutto la vicenda che viene raccontata: l’amore che nasce tra un ragazzino, Elio (Timothée Chalamet), italo-americano, figlio di un professore di archeologia, e un giovane uomo, Oliver (Armie Hammer), studente americano che viene ospitato nella villa della famiglia di Elio per scrivere la tesi di dottorato.
Tra i due si crea subito un rapporto ambivalente di attrazioni e contrasti, di ore passate insieme alternate a lunghe distanze. Elio è prima incuriosito poi fortemente attratto da Oliver, che un po’ c’è un po’ scappa, un po’ si propone un po’ lo rimanda ad altri momenti (“later”, dice sempre), in un estenuante gioco al gatto e al topo. Si va avanti così fino alla resa finale a un amore che sarà appassionato e fresco e che li travolge di gioia.
Ciò che è straniante però, sia chiaro, non è l’amore omosessuale, ma il modo del tutto naturale che ha Guadagnino di raccontarlo. Che siano due ragazzi a innamorarsi è irrilevante: Chiamami col tuo nome racconta una storia d’amore, punto. E abituati come siamo a vederci proporre film in cui i gay o sono macchiette o emblema di lotte pur sacrosante, qui vediamo semplicemente due ragazzi che esplorano un sentimento, che loro avvertono come proibito più per i loro ruoli (il figlio del professore e lo studente del professore) che per il fatto che sia un amore gay. Di fatto, nessuno ha niente da ridire per questa relazione: non il padre, che anzi fa un discorso al figlio che andrebbe fatto studiare a ogni genitore di adolescenti; non la madre, che con discrezione non solo sostiene Elio, ma lo incoraggia a prendersi gli spazi e i tempi che questo amore richiede e merita.
Al di là della bellezza della fotografia e della bellezza del luogo dove si svolge il film; al di là della perfezione delle riprese, di una colonna sonora in parte raffinata e in parte nostalgica; al di là anche della prova di attore entusiasmante offerta dal giovanissimo Timothée Chalamet, il grande valore di questo film è proprio il suo essere una delicata e intelligente storia di iniziazione all’amore. E di essere riuscito a rendere davvero irrilevante l’orientamento sessuale di questo sentimento.