di Francesca Bianchessi
Apollo 10 e ½ è un sogno, un sogno ad occhi aperti di un ragazzo che racconta la sua infanzia a Houston, Texas, negli anni ’60.
Probabilmente non sapremo mai cosa fosse vivere a Houston in quel periodo: ai giorni nostri sembra difficile pensare che tutto il mondo giri attorno ad un perno e che quel perno sia una città come Houston. Ed immaginatevi cosa potesse essere vivere da bambini nella città dove si correva verso la Luna.
Così si apre il nostro film: Stan è un uomo adulto (con la voce di Jack Black) che ci narra i suoi ricordi d’infanzia. Il film è quasi una biografia del regista, Richard Stuart Linklater (Waking life, 2001; Boyhood, 2014) intrisa di riferimenti alla cultura pop di quegli anni. Serie tv, musica, abitudini si susseguono in un frizzante spaccato di quei giorni, come te lo raccontasse un amico. Senza negarsi un pizzico di nostalgia. Spiccano tra tutti delle vicissitudini, come ad esempio la guerra ai rifiuti o la vecchia nonna complottista, che ci fanno dire “Ah, ma anche allora funzionava così!”, con l’aggiunta di un sussurrato “Eh, magari avessero fatto di più…”
Questo taglio pop, dà anche modo di conoscere i personaggi per quello che seguono e che fanno, dando dei ritratti molto umani alle persone che vivono in questo mondo.
E però, non è così semplice. Se avete visto il trailer (o se ve lo foste semplicemente chiesti vedendo il titolo), vi sarete posti la domanda: Apollo… 10 ½? Ebbene sì, perché nella narrazione di Stan c’è un ricordo chiaro e certissimo: un giorno due agenti della CIA si sono presentati da lui e, considerando le sue doti atletiche nei giochi da cortile e nonostante qualche carenza in matematica, hanno scelto lui per una missione segreta segretissima: andare sulla Luna prima dell’Apollo 11, con il modulo lunare che la NASA avrebbe costruito troppo piccolo, della misura di un ragazzino delle medie.
No non è una bugia. È quella cosa a cavallo tra sogno, immaginazione e ricordi un po’ fantasiosi, di quelli che a natale tua zia ti smonta dicendoti che le cose sono andate esattamente al contrario di come ricordi. Ma Stan sulla Luna c’è stato per davvero. Forse lassù c’era Houston, o davvero tutta l’umanità, ed è questo il bello del film: perdoni la fantasia perché vorresti che sia la tua.
Veniamo però alla tecnica perché, come spesso accade nei film migliori, accompagna e sottolinea il messaggio finale. Il film è in animazione, creata con la tecnica del rotoscope (o rotoscoping), che sottolineiamo perché è quella tecnica d’animazione che ricalca le figure precedentemente riprese dal vivo. Quindi, in questo caso, il giovane Milo Coy ha girato le scene davanti ad un green screen, scene che poi sono state ricalcate in modo da creare un’animazione davvero realistica. Se vi suona famigliare, o se anche no, potreste averla vista nei film Disney. Walt Disney usò questa tecnica in maniera massiccia nei suoi film tanto che la rivediamo fin dai suoi primi capolavori, come Biancaneve e i sette nani del 1937 (1938 in Italia). Il rotoscope permette di avere un film d’animazione, all’interno del quale tutto è reale, ma estremamente vicino e tangibile alla “vita vera”.
Forse non è un film per chi cerca la fantascienza, quella di un 2001: Odissea nello spazio (Kubrik, 1968) anch’esso citato nel film. Non è quindi un film di quelli che per anni t’interroghi sul significato di ciò che hai visto, ma un film dolce come un ricordo, un film frizzante come la vita di Houston negli anni ’60.