di Ludovico Riviera
Con America Latina, i fratelli D’Innocenzo tornano con un film carico d’ansia e di messaggi inesprimibili, al confine tra realtà e follia.
Un film criptico, l’ultimo dei D’Innocenzo, coppia di fratelli registi alla ribalta nel mondo del cinema nostrano.
Questo duo ha iniziato un viaggio nell’interpretazione della psiche di un paese denso di contraddizioni: il nostro, l’Italia; più specificatamente, è all’Italia della provincia laziale a cui i registi – sono romani – si dedicano. Una provincia che, forse, si presta particolarmente bene alle narrazioni decadenti come quelle a cui i fratelli ci stanno abituando: Roma e dintorni stanno, oramai da anni, vivendo in una sorta di farsa… Tutto il Lazio, che segna il vero mezzogiorno della penisola, vive nella vicinanza del riflesso di politiche insoddisfacenti le quali, condotte proprio nella capitale, non possono non subire il glorioso contrappasso di un passato ingombrante. Un passato anch’esso, però, fatto di promesse non mantenute: di aspettative insoddisfatte, seppur corroborate da capolavori d’arte e architettura.
L’incapacità di soddisfare una tradizione obsolescente è uno dei temi al centro della recente filmografia dei D’Innocenzo: il contrasto fra come qualcosa appare – o come deve apparire – e ciò che quel qualcosa effettivamente è si riverbera, nel contesto italiano, dall’appariscenza della nostra terra alle personalità frantumate che la popolano. Queste insoddisfazioni sono infatti al nucleo della vita di provincia così come ci viene offerta dai due fratelli, che assecondano un sentito (e, purtroppo, sensato) luogo comune: la provincia all’ombra della città, la provincia dove ci si isola per vivere secondo regole proprie, o secondo altre regole; la provincia dove, purtroppo, si patisce. Nella cinematografia italiana contemporanea, la provincia è il principale teatro degli ultimi appassionanti melodrammi, un luogo da cui ci si riscatta per non rimanerci intrappolati.
È di una trappola quella di cui si sta infatti parlando, una trappola senza sbarre o mura, una prigione della mente, e ad essere imprigionato è un magistrale Elio Germano nei panni di Massimo Sisti, un dentista facoltoso. Rispettabile, con una famigliola bene assortita. Cani. Un dentista, appunto, di provincia, provincia che all’inizio del film appare quantomeno consolatoria: i prezzi bassi aiutano la ricchezza del protagonista, che vediamo possiede una villa modernissima con piscina, dove ama la moglie e dove apprezza i talenti delle figlie, brave e belle. Una suona il piano. Si frequenta con un amico per delle birre in campagna, dove si trovano in macchina. La campagna di Latina, nell’affresco dei Germano, ha un sentore strano: qualcosa di epico, dalle ambientazioni essenziali, frustrate dai venti autunnali; un paesaggio dai contesti urbani diradati, mai perfettamente localizzabili. Forse il titolo è un riferimento alle parvenze vagamente sudamericane dell’ambientazione.
Massimo ha comunque qualche problema. Non evidenti a inizio film (benché suggeriti dalla locandina) che, come nelle tragedie scolastiche, inizia presentando una condizione d’ordine che sappiamo sarà drasticamente sconvolta. La situazione peggiora – prima improvvisamente, poi gradualmente e inesorabilmente – dal momento in cui egli, scendendo in cantina per una faccenda vi scopre, in un macello incredibile, una bambina legata ad una colonna. Una bambina messa male, che urla appena sbavagliata, che lo morde quando lui, dominato lo sgomento, prova a soccorrerla. Massimo sembra non sapere cosa o perché è lì. Però non chiama la polizia, la lascia legata e nel frattempo indaga per i fatti suoi: googla “ragazze rapite”, sospetta dell’amico, si fa delle paranoie.
Nel frattempo, la sua famiglia pare completamente all’oscuro della poveretta, cui Massimo, di quando in qua, fa visita.
È un rapporto morboso quello che questo dentista ha con la vita: con la sua famiglia, con la realtà che vive, con l’imprigionata; il resto della trama non si può svelare.
I D’Innocenzo stanno lavorando seguendo una precisa linea tematica, una linea incisa nell’interpretazione psicanalitica del sottobosco sociale italiano, con l’intento di evidenziare soprattutto i non visti che si annidano sotto le superfici della ‘normalità’, specialmente se famigliare: se nel loro precedente Favolacce (ecco la recensione del film del 2020 che, azzardo, meglio riuscito di questo) drammatizzavano appositamente, mettendola sotto processo, l’istituzione della famiglia italiana, mostrandone una versione totalmente abietta (e inconsapevole – ma può l’ignoranza riscattare delle colpe obiettive?) benché plausibile; in America Latina l’idea di famiglia è un contorno che orna le psicosi del protagonista, un uomo di mezza età pieno di traumi irrisolti. Massimo Sisti è un uomo il cui successo è solo apparente: dentro di sé, in realtà, è distrutto.
Ed è solo a circa metà del film che capiremo come mai. Dicevo dei non visti: questo film è anche un film dei non detti, dell’allusione. Intuiamo un rapporto traumatico col vecchio padre ancora vivo, che vediamo in un’unica scena. Intuiamo la noia, la piattezza, della provincia; la banalità dell’ideale di vita piccolo borghese lavoro-casa-famiglia: tutte idee che animano chiaramente il film, giustificando l’esistenza di questo triste antieroe, riflesso di una realtà che ci circonda e che però, spesso, ignoriamo deliberatamente.
Il cinema dei D’Innocenzo non è fatto per godere: è fatto per soffrire. Non posso scrivere né che il film mi sia piaciuto, né che sia bello: ma questo credo proprio fosse proprio l’intento degli autori.
Fa’ piacere, certo, vedere cose diverse al cinema, e i fratelli romani stanno spingendo su un acceleratore interessante: ma la velocità fa’ anche sbagliare. Il film, dai nobili intenti, non manca di fallire certi colpi, che inficiano globalmente un’esperienza che, se voleva essere disturbante, non lo è solo per la messa in pratica degli intenti di scrittura e regia. Lo è anche per dei – legittimi – errori nel dosare il ritmo della visione; per l’estetica (bella, certe inquadrature sono magnifiche, allegoriche e tutto, ma) sovrabbondanti, a tratti fini a loro stesse, che riportano in superficie ciò che, invece, si vorrebbe scavare. I dialoghi, ridotti all’osso e volontariamente banali, vuoti, non permettono il dedito approfondimento delle tematiche affrontate, che viene completamente affidato alla libera interpretazione dello spettatore.
America Latina è l’ennesimo innesto di una rinascente tradizione cinematografica italiana che finalmente si sta sforzando, anche attraverso film del genere, di trovare una sua identità nel vasto panorama internazionale. Questa ricerca ovviamente implica anche inciampi, film non esattamente riusciti come forse è questo, ma si perdona qualsiasi errore se si percepisce l’intento sincero di creare un linguaggio là dove fino a pochi anni fa c’era terra bruciata.
Film del genere servono per ricostruire delle nuove, necessarie fondamenta.