di Silvia Simonetti
Flemmatico è davvero l’amore che ti ricerca e stravolge? l’abitudinaria scelta a vite statiche con il senso del vuoto unidirezionale laddove ogni nucleo intimo familiare o individuale si perde in una lunga coscienza e riabilitazione di amori voluti, sentimenti sospesi da paure emozionali come nella rappresentazione filmica Love Life di Kôji Fukada.
Quest’ultimo è uno dei rari registi giapponesi che si affida all’influenza dei grandi Maestri, in particolar modo Kurosawa, Marcel Carné, Víctor Erice, cineasti da produzioni d’autore.
Fukada è il vero figurante moderno dell’oriente remoto laddove ogni sua riproduzione cinematografica si orienta verso narrazioni drammatiche in cui emergono gli spettri sconsacrati da unioni relazionali apparentemente solidificate anzi Fukada ne fa una pulizia scheletrica e crea incertezza, gelo sentimentale nei confronti della realtà nipponica.
Nascono e muoiono le peggiori attitudini in attimi sequenziali dell’opera Love Life, i protagonisti sono una triangolazione amorosa dell’imperfezione sociale ed estranea, inizia con la prima relazione da novella appagante, ovverosia Taeko come moglie fedele e il marito protettivo talvolta con spicchi di gelosia prematura e infine il piccolo Keita.
Una famiglia assomigliante a favole circoscritte ma appena raggiungono la dinamite esplosiva arriva il terzo ospite inatteso.
Colui tanto indesiderato e che fin dai tempi lussuriosi come in Into the mood for love di Wong Kar-wai o The English Patient di Anthony Minghella, arriva in modo irrompente, lo straniero che risveglia in noi l’espediente o il caso insoluto.
Ma in questa circostanza l’amante è il ritorno all’amore del passato e padre biologico, sordo muto e che è rimasto escluso dalla società, avendo perso quote economiche e l’unico miraggio conciliatorio è tentare di unificare il passato sentimentale.
L’amante assume un significato molteplice, vale a dire che diventa la memoria di una relazione vissuta e perché esiste ancora il bisogno di essere legati, incatenati all’inesauribile nostalgia di amori interrotti? come in Love Life, l’antica coppia che deve risolvere le proprie ombre relazionali.
Non bastano presenze genitoriali o figli che possono sostituire la mancata unione alla fedeltà e al risorgimento di una buona condotta familiare e sentimentale.
Il regista giapponese in quest’ultima rappresentazione, tramanda un ultimo messaggio ovvero creare soggetti che nel corso della storia, cercheranno in qualsiasi modo di far risuscitare la coscienza di Taeko, di raggiungere il filo decisionale della propria vita, aver sconfinato gli anni di piombo e uscirne vittoriosa da battaglie o remore di un passato dominato da promesse illusorie.
Dunque, Fukada nel suo magistrale retroscena filmico ci riporta a strati profondi in cui vi è il lutto della trasformazione non soltanto onirico ma di riconquistare il cielo perduto, di essere salvati e rigenerati dalla consapevolezza di ritornare a vivere la vita nella sua essenza quotidiana, nutrita da eventi semplici ma profondamente devoti alla resistenza del dolore muto, ai sbiaditi silenzi che ricordano sonori compositivi dell’ Aurora di Hanz Zimmer o Black Window di Martin Phipps ma soprattutto questo film celebra le risonanze sensibili e riflessive di Minari di Lee Isaac Chung oppure Madre di Bong Joon-ho o perfino la Pietà di Kim Ki-Duk.
Forse il cinema nipponico resterà legato per sempre alla vita del fascino storico laddove la narrazione supera la leggenda, rimangono credibili le piccole storie fantasmagoriche, favole simboliche che per anni vivono nella riservatezza così come in Love Life di Fukada, il mistero del sentimento umano resta sconosciuto per noi spettatori.
Non vi è alcun accesso al segreto interiore dell’amante che vivrà ogni giorno nel desiderio dell’attesa e lascerà sgocciolare lentamente tutti gli amori irreversibilmente letali e consumati dalla loro stessa natura.