di Ludovico Riviera
Babylon
La nuova vecchia babilonia americana torna al cinema, e gioca crudelmente con generi e voluttà del cinema statunitense.
David Chazelle
La nuova impresa di David Chazelle (1985) lo immette, a ragion veduta, nel novero degli eredi della grandiosa Hollywood dei kolossal d’altri tempi.
Pare esserne consapevole il regista e sceneggiatore (già autore di film ben chiacchierati, due esempi: il cinico Whiplash del 2014, ed il premiato La La Land del 2016), dato che il carattere ontologico, autoriflessivo di questo Babylon è evidente, per tematiche e stile: Chazelle doveva pur raccontare la storia dell’ambiente che si appresta a dominare, col preciso scopo di riuscire nell’impresa.
La buona arte, d’altronde, parla sempre anche di sé stessa – pur raccontando altro.
Trama di Babylon
Le vicende di Babylon si snodano agli albori dell’industria cinematografica statunitense, nel periodo di transizione tra il cinema muto e il sonoro (fu un piccolo cataclisma per gli addetti ai lavori), e segue le vicende di due parvenue (interpretati da Margot Robbie e Diego Calva) che, ovviamente, vogliono farsi strada in quel mondo.
L’apparentemente solita storia di formazione viene gestita da Chazelle come fosse un girone dantesco: l’andirivieni di eventi ed emozioni segue il ritmo serrato – tipico dello stile del regista, che aveva ambizioni musicali e di ritmo si intende – di un montaggio che, nel corso delle tre poderose ore, cuce assieme vari generi cinematografici in maniera anche disomogenea, senza paura.
Nel corso di poche scene si passa dalla commedia alla tragedia, dal thriller al sentimentale. La cornice legante è l’ambiente desertico in cui, appunto, nasce una nuova babilonia di passioni, ove gli individui si immolano al sogno dell’eternità, e appunto vivono come se potessero non morire.
Eppure muoiono, ed il passaggio di testimone che avviene tra il personaggio di Brad Pitt e i protagonisti si rende evidente proprio nella seconda metà di questa pellicola capace, a tratti, di emanare una sicumera ironicamente profetica.
Gli eroi di Chazelle
Tanti sono i registri comunicativi, perché altrettante sono le sensazioni provate da chi nutre grandi ambizioni: da sempre, l’epica ci educa al fatto che sono gli eroi, coloro che hanno il coraggio dei veri sacrifici, a godere della pienezza della vita.
Chazelle ci ricorda (non è l’unico: è un leitmotiv ricorrente in questo tipo di cinema) che gli eroi in effetti non esistono, ma esistono le storie, gloriose e tragiche a un tempo, di persone che possono anche fallire nonostante l’abnegazione.
La metafora della vita come rischio costante, come pendolo che oscilla tra successo e fallimento, è il tema portante del film: l’Hollywood che muta ed evolve cavalcando l’evoluzione tecnica dei propri mezzi è indifferente alle vite dei propri operatori, che si sacrificano per un moloch la cui gloria solo sporadicamente, e per di più temporaneamente, illumina le loro brevi, fatue vite. Come sempre, l’ombra del sogno americano si staglia lunghissima anche sui prodotti del ‘nuovo’ cinema, a cui però, forse non corrisponde una rinnovata etica.
Comunque, Chazelle ‘osa’, nel senso che non realizza un film esattamente digeribile. Babylon sa essere repellente per la crudezza con cui illustra certe bassezze. Personalmente, sento di poter premiare lo sforzo. Pur non essendo un film leggendario come sostengono molti elogi, né un caotico pastiche come dicono i detrattori (in pochi giorni, Chazelle polarizza la critica: è un fatto positivo), è una legittima interpretazione di quel mondo che ha il merito di non fare troppi moralismi, ma restituisce una visione della storia per quello che effettivamente fu, per quanto romanzata la trama sia: un coacervo di carne, ideali, compromessi e morte.
Il mondo del cinema tende, a causa della sua natura artistica, a plasmare un’immagine ben precisa di sé, un’imago che, specialmente un tempo, poco lasciava intendere di ciò che avveniva a cineprese spente.
Oggi, che gran parte degli altarini sono cascati, è giusto che l’arcinota tendenza del cinema americano a fare autoanalisi del proprio milieu ritorni sui suoi passi, alle sue origini, faccia insomma un reset per dare il via alla prossima generazione di giovani cineasti.