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Marcello Mio

di Silvia Celesti

NEPO BABY E LA FATICA DI ESSERE “FIGLIO DI”

I maschi matrizzano e le femmine patrizzano. Chissà quante volte se lo sarà sentito dire Chiara Mastroianni figlia di Marcello Mastroianni e  Catherine Deneuve che della somiglianza con suo papà porta un’evidenza sfrontata.
Ricorrono i cent’anni dalla nascita del celebre attore (28 settembre 1924 a Fontana Liri) e questo film – regia di Christophe Honoré – si propone come una sorta di tributo, di iper celebrazione filiale, anche se capiremo ben presto che quello che viene consegnato agli spettatori, più che un tributo sembra aver a che spartire con un malessere ossessivo in cerca di espiazione. Chiara impersona se stessa, un’attrice alle prese con una vita in attesa, con un provino come tanti e con una somiglianza che non le dà tregua e soprattutto non le dà identità. Sì, perchè questo film parla della fatica di essere “figlio di” quando il genitore è un mostro sacro del settore. Quello che in gergo anglosassone viene definito come nepo baby e che, forse, è un tema più sentito all’estero che non in Italia, dove il nepotismo e la sua gamma di risvolti hanno radici assai profonde e consolidate.

TRAMA

E così, durante il provino, gli attori provano la scena e qualcosa non va, non funziona affatto. La regista ha le idee chiare, questa non è una scena da interpretare con franchezza e brutalità, Chiara deve ispirarsi più a Marcello Mastroianni, alla sua ambiguità mediterranea, alla sua indolenza latina, “dev’esser più Mastroianni e meno Deneuve”. E così Chiara, in preda ad un assedio alla propria identità, sprofonda nella sua ossessione latente, ormai è fuori controllo e decide di soccombere dandole forma. In mezzo allo sgomento dei suoi conoscenti e dei parenti, a partire dalla mamma Catherine, Chiara decide di annullarsi completamente per lasciare spazio a lui, Marcello. Facendosi aiutare da un amico truccatore, si procura una parrucca, gli abiti, si fa truccare ed è pronta ad affrontare la quotidianità nei suoi nuovi panni.

MARCELLO MIO, CHIARA MIA

Chiara, flâneuse per le vie di Parigi, cammina come lui, beve whisky, fuma, parla come fosse lui, ripercorre i dissapori e i luoghi della sua infanzia, come l’appartamento di famiglia parigino, ma li visita con gli occhi di Marcello. In questo delirio Chiara trascina anche il collega Fabrice Luchini che, nei panni di se stesso, segue la metamorfosi dall’inizio. I due infatti sono i protagonisti del provino che innesca la vicenda e Fabrice, tanto attratto dalla figura di Chiara quanto da quella di Marcello, farà da spalla a questa migrazione identitaria; finalmente, dirà, ha l’onore di sapersi amico del grande Marcello Mastroianni.
Riguardo a Mastroianni, non potevano mancare Roma, Formia, gli studi Rai, dove Chiara giungerà per celebrare il nuovo ritorno di Marcello, con un cameo di Stefania Sandrelli. Una Roma, però, troppo distante da quella di Mastroianni, nello sguardo, ancor più che nell’epoca.

E così, dopo un lungo percorso dal ritmo troppo lento per lo spettatore, che non vive il labirinto di Chiara – questo è un film intimo, familiare, che parla di un territorio dal quale lo spettatore è sempre tenuto fuori – capiamo che forse tutta quella somiglianza disattende le previsioni e arrivando alla fine si guarda Chiara e non si vede più Marcello, più efficace di così…

Chissà che dunque Chiara Mastroianni, esasperando l’identificazione, portandola all’estremo, abbia rotto la sua gabbia e attraverso i panni del papà abbia affermato più che mai la sua (di Chiara) presenza. Certo è che, per gli spettatori, questo film avrebbe potuto chiamarsi “Chiara mia”.

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