di Marta Dore
Per qualche anno ho insegnato italiano a giovani migranti in un centro di accoglienza a Milano. Un giorno stavamo coniugando il verbo Avere al presente e, arrivati alla prima persona plurale, Djibril, un ragazzo senegalese di diciotto anni, si è alzato e ha detto: ‘Noi abbiamo sogni’.
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Io Capitano, l’ultimo film di Matteo Garrone vincitore del Leone d’argento al Festival di Venezia, ha il sogno come nucleo tematico e, in parte, anche stilistico. Sognano Seydou e il suo amico Moussa e usa a volte un registro onirico anche il regista, che mescola nel racconto realismo e immagini fiabesche.
Io Capitano è la storia di due ragazzini senegalesi che, dopo aver lavorato a lungo per raccogliere i soldi, partono di nascosto dalle famiglie per raggiungere l’Europa, dove vogliono, appunto, realizzare i loro sogni: diventare rapper famosi e firmare autografi ai bianchi. Lo ripetono spesso nel film, anche per farsi coraggio: ‘il nostro sogno, il nostro sogno!’.
Il viaggio sarà una sorta di Odissea contemporanea o un’avventura che richiama, non a caso, quella di Pinocchio: Seydou e Moussa – interpretati da due ragazzi meravigliosi, Seydou Sarr (premiato a Venezia come miglior attore esordiente) e Moustapha Fall, arrivati in Italia facendo quello stesso viaggio – partono con la testa piena di sogni e armati di un’ingenuità che perderanno per strada nell’incontro con l’orrore, i morti nel deserto del Niger, le torture in Libia, il terrore in mare. Partono con la leggerezza dei ragazzini e arrivano con la pesante maturità degli adulti. È diventato un uomo soprattutto Seydou, perché si troverà nell’ultima tappa del viaggio a essere il Capitano di una barca malconcia e a portare in salvo decine di persone della cui vita sente tutta la responsabilità. Alla vista della terra siciliana, il sogno forse può iniziare a dispiegarsi (o almeno lui e gli altri lo sperano).
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Ha diversi pregi questo coraggioso lavoro di Garrone, coraggioso perché la materia è molto scivolosa: oggi un racconto sulla migrazione corre il rischio di diventare insopportabilmente pietistico, o paternalistico, o polarizzato sul bene da una parte e il male dall’altra. Rischia di semplificare una realtà molto complessa.
Con la consapevolezza che è impossibile dire tutto in un solo film, ogni regista sceglie un punto di vista e un tono del racconto. Garrone ha scelto di raccontare la storia di Seydou mettendosi negli occhi di Seydou (non a caso i personaggi parlano nella loro lingua, il wolof soprattutto, ma anche il francese come è normale in Africa, e tutto è sottotitolato): quello che vive il ragazzino – da quando è ancora a Dakar con la sua mamma e le sue sorelle a quando attraversa il deserto, la Libia e il Mediterraneo – è rappresentato secondo il suo sguardo e il suo vissuto. E allora Seydou non è un poveraccio che parte per disperazione: la sua vita a Dakar, povera ma non miserabile, si nutre di affetti e relazioni strettissime. Garrone ci dice che le persone che lasciano la loro casa non sono per forza disperate (alla lettera: senza speranza), anzi, sono forti di vitalissime speranze. Spesso, non sempre, questo è vero.
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Garrone, inoltre, cerca di non cadere nella polarizzazione tra buoni e cattivi: Seydou incontra libici spietati e altri che trattano i migranti con umanità, così come tra gli africani del sub Sahara c’è chi ti è amico e ti salva, ma ci sono anche subdoli complici degli aguzzini.
Allo stesso modo, la bellezza dei paesaggi desertici dà risalto all’orrore dei corpi di chi non ce l’ha fatta, quelli di donne e bambini che Seydou e Moussa osservano sgomenti, come prima tappa verso la perdita di quella loro iniziale innocenza. La realtà non è mai semplice, meno che mai in quei luoghi. E allora, sembra dire Garrone, forse ci si può fare aiutare dal sogno, che si mescola visivamente al realismo delle immagini, per avere un breve momento di sollievo e ripartire con più forza.
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Le immagini, dunque. La regia di Garrone è studiata e costruita con sapienza e cura. La fotografia è bellissima; pure troppo, hanno scritto alcuni. Ma non è mai leccata o facile. Del resto, rappresentare il male attraverso la bellezza appartiene alla tradizione artistica: pensiamo alla potenza di alcune scene dipinte dal Caravaggio o da Artemisia Gentileschi, o alla Strage degli innocenti di Duccio di Buoninsegna. La bellezza vive nella semplice casa di Dakar, ma anche nel deserto, e perfino nelle carceri libiche: il contrasto tra la bellezza e l’orrore va a sottolineare quest’ultimo, ma senza voler sfrugugliare l’emotività di chi guarda il film.
Quindi non si piange guardando Io Capitano, ed è una scelta registica che ha un senso. È, in parte, la forza ambigua di questo film. Che riesce a raccontare una fase tragica della migrazione di cui poco si parla, restando però con dolcezza accanto ai due ragazzi che compiono quel viaggio, riconoscendo la legittimità dei loro sogni, cercando di non dimenticare che la bellezza, come l’umanità, esiste e si deve cercare anche nel mezzo della disperazione.
‘Noi abbiamo sogni’, ci ha detto Djibril in classe. E Garrone ce lo ha raccontato con un film delicato e bellissimo.