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Rapito di Marco Bellocchio al Festival di Cannes

Rapito, il realismo immanente di Bellocchio

di Silvia Simonetti

L’equivoco passato storico di Edgardo Mortara si trasforma in un racconto cinematografico: Rapito che diventa il volto degenerato dell’intoccabile contraddizione ecclesiastica sotto la guida del maestro Marco Bellocchio, un regista dalle doti reazionarie come per il film La Cina è vicina ottenendo il Leone d’Argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Numerosi honoris come il Leone d’Oro alla carriera nel 2011 o la Palma d’Oro onoraria al Festival di Cannes nel 2021.

Ha sempre donato al pubblico una trasparenza atipica dell’uomo difettoso, seguendo la politica controversa del cogito ergo sum come attitudini rivoluzionarie dei film La Lotta, Il traditore e Esterno Notte (qui la recensione) oppure contenuti laddove la perversione sessuale è il perfetto incastro della forte inquietudine umana, come nella rappresentazione filmica La condanna, La Balia o Il Diavolo in corpo.

Un cineasta che riesce a differenziarsi attraverso le moltitudini sociali del nostro tempo, ogni volta fuori dal conformismo inespressivo e lontano dagli stratagemmi narcisistici, anzi si avvicina ai livelli piramidali dello stile filmico di Bernardo Bertolucci, le creazioni come configurazioni impeccabili, giudiziose e allo stesso tempo agnostiche.

Rapito film Bellocchio

Credits: @01Distribution

Non esiste immaginario ma traduzione filmica della vita umana, Bellocchio unisce l’internazionalismo attoriale con quello italiano, la sua evoluzione e occasione si identifica quest’anno, il 23 maggio con l’uscita del lungometraggio Rapito a Cannes, quest’ultimo fu il tentativo mancato di Spielberg che rinunciò al progetto.

E’ stato il regista italiano a dare l’inizio di una storia non soltanto scandalosa e di facile fraintendimento, ma diede modo di scalfire il dogma religioso sempre esistito in Italia, a partire dai Patti Lateranensi. Una fede anomala e un divario tra il potere cattolico e la conversione di fronte a qualsiasi individuo soprattutto di docile credenza come la pura innocenza di un infante e questa rappresentazione viene semplificata dall’originale intelletto di Michela Murgia: I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità.

Un semplice fantolino ebraico di Bologna venne rapito dai soldati di Papa Pio IX per essere convertito ed edulcorato alla fede cattolica nella Roma pontificia. Un’infedeltà senza precedenti e Bellocchio ha saputo dimostrarcelo con il dramma affettivo e morale della famiglia a cui è stato sottratto il figlio, quest’ultimi lottano contro l’ingiustizia assolutista, talvolta con ripetute insolvenze e una riconciliazione assente.

Rapito di Marco Bellocchio

Credits: @01 Distribution

Un film che merita una progressiva divulgazione storica, per conoscere le vere dinamiche clericali, le smentite e le codardie dietro a benedizioni ultraterrene, poiché il regista ci induce a relazionarci con la parola rapimento: in preda da un raptus, che a sua volte si manifesta nel rubare, prendere e impossessarsi con la violenza e fragore di ciò che si desidera ardentemente, confondendo la persuasione con il fiducioso perbenismo.

L’inganno come sommo impostore laddove ancora oggi bisogna imparare ad osservare, chi dietro la siepe del miracolo rimane un umile e profondo credente che rivelerà le irreali pianificazioni esistenziali dell’uomo adulterato.

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