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AMORE MUSEI ISPIRAZIONE Le storie del Museo dell’Innocenza al Bagatti Valsecchi di Milano

11 Giugno 2018
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di Erika Lacava

 

Intervista a Laura Lombardi

 

“Il Museo dell’Innocenza non è un’illustrazione del romanzo omonimo, così come il romanzo non è una descrizione del museo. Ho concepito l’idea del romanzo e del museo contemporaneamente”.

Così lo scrittore turco Orhan Pamuk presenta il progetto multimediale del Museo dell’Innocenza, articolato nel romanzo, uscito nel 2008, nel museo omonimo a Istanbul (“Masumiyet Müzesi”) e nel catalogo del museo “L’innocenza degli oggetti”. Se la narrazione di Pamuk, in particolare in “Istanbul. I ricordi e la città”, gli è valsa il premio Nobel per la Letteratura, il progetto dedicato alla storia d’amore, senza lieto fine, tra il ricco Kemal Basmaci e la bella Füsun nella Istanbul degli anni Settanta-Ottanta ha portato lo scrittore all’assegnazione dell’European Museum of the Year Award e alla laurea honoris causa conferitagli dall’Accademia di Belle Arti di Brera.

Ora il Museo Bagatti Valsecchi presenta parte del Museo dell’Innocenza di Istanbul al pubblico milanese con la mostra “Amore Musei Ispirazione” aperta fino al 24 Giugno 2018.

Abbiamo chiesto a Laura Lombardi, storica e critica dell’arte, docente di Fenomenologia delle Arti all’Accademia di Brera, di parlarci, in qualità di co-curatrice della mostra insieme a Lucia Pini, della particolarità dell’operazione di Pamuk, che lo ha portato a varcare il confine tra letteratura e arte, finzione e realtà, andando a rompere gli schemi di un collezionismo e di un metodo espositivo classici.

Orhan Pamuk, vetrina n. 51 – La felicità è stare accanto alla persona che si ama © Museo Bagatti Valsecchi

Erika Lacava: Nel gennaio 2017, in occasione del conferimento della laurea honoris causa a Orhan Pamuk, si è svolto il convegno dedicato dall’Accademia di Brera al Museo dell’Innocenza, a cui è seguita la pubblicazione del libro con introduzione di Salvatore Settis “Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo” (Johan & Levi, 2018), che raccoglie le riflessioni svolte in quell’occasione di storici dell’arte, museologi e critici d’arte. Lei è stata prima parte attiva nell’organizzazione dell’evento, poi co-curatrice del libro con Massimiliano Rossi e ora è nuovamente coinvolta con la mostra al Museo Bagatti Valsecchi.

Che cosa la affascina in particolar modo del progetto di Pamuk?

Laura Lombardi: Quel che mi attira in questo progetto è il suo essere una straordinaria macchina “retorica” (e uso questo termine nel suo senso più illustre e più esteso, proprio come magnificenza, eloquenza espressiva), che pone in relazione strettissima testo letterario, museo e catalogo del museo.

Le conoscenze e gli interessi figurativi di Pamuk sono amplissimi e questo patrimonio è del tutto funzionale alla struttura narrativa. Al tempo stesso, però, si può leggere il romanzo senza aver visitato il museo o consultato il catalogo, così come si può essere affascinati dalla visita al museo o alla mostra milanese senza aver letto il romanzo. Potremmo dire che l’uno invoglia a conoscere, a entrare nell’altro.

Che io sia parte attiva nelle tre ‘tappe’ del progetto Pamuk a Milano risiede nel fatto che la mostra è connessa alle giornate braidensi (da cui poi nasce anche il libro), anzi ne è quasi il naturale svolgimento. Come si legge in “Un sogno fatto a Milano”, dove si trovano anche alcuni interventi inediti di Pamuk, una sessione del convegno a Brera era dedicata proprio a “La rete delle Case-museo di Milano: vecchi e nuovi paradigmi” e tra gli interventi c’era quello di Lucia Pini, conservatrice del Museo Bagatti Valsecchi, dal titolo “La visita numero 5723 di Kemal Basmaci: il Museo Bagatti Valsecchi di Milano”.

L’idea di connettere il Museo dell’Innocenza al Museo Bagatti Valsecchi, che Kemal visita un’ultima volta prima di morire, tanto lo ritiene importante, era tra le aspirazioni di Lucia Pini e mie. Della mostra abbiamo cominciato a parlare con Pamuk nei giorni milanesi del 2017, per poi continuare a scriverci in proposito poco dopo il suo rientro a Istanbul.

EL: Le 29 teche numerate esposte al Bagatti Valsecchi sono una selezione riprodotta delle 83 teche originali, una per ogni capitolo del libro, custodite nel Museo dell’Innocenza di Istanbul. Le vetrine sono state realizzate dallo stesso Pamuk, che ha dichiarato di essersi sentito un artista come gli accadeva in gioventù. Le opere artisticamente rimandano agli object trouvé di memoria surrealista (Marcel Duchamp e soprattutto Joseph Cornell) o ai tableaux-pièges di Daniel Spoerri ma mi sembra che si collochino fuori da alcuni canoni artistici, come l’impossibilità della vendita dei pezzi originali, pena lo smembramento della collezione, o l’aspirazione a essere valorizzati in un museo, perché nativamente già si collocano in esso.

Si tratta quindi di un prodotto ibrido, di difficile collocazione all’interno dei canoni classici del mondo dell’arte?

LL: Certamente, gli oggetti in sé non hanno valore singolarmente, sono cartoline, gioielli di bigiotteria, una scarpa da ginnastica, una macchina da cucire, una grattugia, un bicchiere di raki, dei profumi, migliaia di cicche di sigaretta, quelle fumate da Füsun (il celebre muro che si trova al piano terra del museo di Istanbul. Ma il modo in cui sono disposti nelle bacheche dà vita a delle installazioni, dei teatrini, che ricostruiscono ed evocano precise situazioni esistenziali. Ogni bacheca ha infatti un titolo che corrisponde puntualmente ai capitoli del romanzo e tutte sono concepite da Pamuk come opere d’arte, per cui potremmo dire che il Museo dell’Innocenza stesso viene a essere una sorta di grande installazione.

Tuttavia i “canoni classici” dell’arte cui lei fa riferimento sono stravolti da altre forme di espressione, in un processo che si avvia già alla metà dell’Ottocento e che culmina con le avanguardie storiche dei primi del Novecento. Quindi l’operazione di Pamuk può essere avvicinata all’agire di artisti contemporanei che, per citare il titolo di un libro di Elio Grazioli (edito nel 2012 da Johan & Levi), si esprimono attraverso la “collezione come forma d’arte”.

All’importanza del modello delle wunderkammern antiche come fonte di ispirazione per gli artisti, Adalgisa Lugli aveva dedicato un libro nel 1983 intitolato “Naturalia et mirabilia” e poi una mostra al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 1986 dove erano esposte opere di artisti contemporanei che avrebbero potuto esser imparentate con gli oggetti collezionati nelle wunderkammern. Con la differenza sostanziale, rispetto a quanto detto, che gli oggetti di Pamuk non sono in sé stravaganti, anzi sono perlopiù molto ordinari. Inoltre Pamuk è in primis un romanziere e il suo prodotto è frutto di questa simultaneità tra parola e immagine, di aristotelica memoria.

EL: Questi oggetti, intorno a cui Pamuk ha costruito il romanzo e il Museo dell’Innocenza stesso, sono stati raccolti dallo scrittore nell’arco di dieci anni. “Setacciavo le strade di Istanbul, i negozi di cianfrusaglie della città, le case di amici e familiari, raccogliendo tutti gli oggetti che avrebbero poi usato i personaggi del mio romanzo. Più oggetti collezionavo, più scrivevo”. Gli oggetti, testimoni dell’amore “innocente” tra i due protagonisti, sono quindi la genesi del processo creativo di Pamuk, che crea un cortocircuito giocando a confondere i piani tra realtà e finzione, trasformando un oggetto reale in una parte del libro e dichiarando al tempo stesso che “il protagonista, Kemal, ha dato un enorme contributo alla realizzazione del romanzo e del museo, fornendo in modo aperto e onesto i dettagli della sua triste storia d’amore e donando al Museo dell’Innocenza gli oggetti che aveva collezionato con tanta cura nel corso degli anni”.

Come si iscrive questa narrazione falsificante nella storia dell’arte?

LL:Intanto preciserei che più che di amore innocente si tratti piuttosto di oggetti resi innocenti dalla purezza del ricordo (che è d’altronde il titolo scelto da Pamuk per il catalogo del museo istanbuliota, “L’innocenza degli oggetti”) e l’operazione di sottrarli alla realtà quotidiana per calarli nel romanzo e nel museo attua questo rito di purificazione.

Quanto alla confusione dei piani, Pamuk è geniale nell’immedesimarsi in Kemal, pur dichiarando sempre la finzione del gioco. Lo fa nelle interviste, nei video di introduzione alla visita del museo e soprattutto nel romanzo. Noi incontriamo per la prima volta Orhan Pamuk nelle sue vesti di scrittore alla festa di fidanzamento di Kemal con Sibel, e a lui è dedicato qualche passaggio di quel capitolo: lo vediamo muoversi, parlare, insomma è un personaggio fittizio, romanzesco a tutti gli effetti. Poi, verso la fine del libro, Kemal dichiara di essersi rivolto proprio a Orhan Pamuk per affidare a lui il compito di scrivere la sua propria storia con Füsun. Ed è così che Pamuk entra in scena, si presenta a noi lettori e ci dice che quel che abbiamo letto è frutto del suo racconto.

Un gioco di scatole cinesi di grande effetto ma soprattutto molto attuale in un momento come questo, nel quale il tema del falso è al centro di molti dibattiti, dalle fake news, alle post verità con grande riflesso nel mondo dell’arte, dove il fake caratterizza il lavoro di molti artisti: pensi tra tutti al caso clamoroso di Damien Hirst nella mostra a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, “Treasures from the wreck of unbelievable”.

Una delle prime teche del Museo dell’Innocenza racchiude la borsetta che Kemal compra in un negozio di Istanbul, per donarla alla fidanzata Sibel, credendola originale di una marca parigina, “Jenny Colon” (che è poi, per inciso, il nome di un’attrice amata dallo scrittore del Romaticismo francese Gerard de Nerval). Sibel, una volta scartato il pacchetto, ne dichiara divertita la falsità e incita il suo fidanzato a tornare al negozio per avere indietro i soldi: ed è così che Kemal incontrerà la lontana cugina Füsun, di un ramo povero della sua famiglia, che è lì impiegata come commessa.

L’intero intreccio romanzesco muove quindi proprio da un falso, come falsa è ad esempio la bibita Meltem soda, inventata di sana pianta da Pamuk ma resa vera creando un’intera campagna pubblicitaria, comprensiva di jingle con una ragazza bionda che la sorseggia.

EL: Gli oggetti, soprattutto quelli comuni, sono quindi al centro della riflessione dello scrittore, che dichiara: “I ricordi fluttuano nelle nostre menti come oggetti che si librano nello spazio, privi di gravità. Non appena comprendiamo che ogni oggetto nella nostra vita corrisponde a un momento preciso che possiamo rievocare, capiamo anche una verità più semplice. Se la linea che unisce i momenti crea il tempo, la linea che collega gli oggetti crea storie, o la Storia, quella che viene narrata nei musei”. Viene così a profilarsi, accanto al Museo con la m maiuscola, un museo della quotidianità, in cui il valore delle opere collezionate non è più legato al riconoscimento estetico o di prestigio, ma a un valore emotivo-affettivo. Nel “Modesto manifesto” Pamuk sostiene che “Il futuro dei musei è dentro alle nostre case”.

In un certo senso, ognuna delle nostre case e, in ultimo, ognuna delle nostre menti non è già un museo della nostra storia personale?

LL: Proprio così. Salvatore Settis nel suo saggio introduttivo a “Un sogno fatto a Milano” (che riprende il contenuto della Laudatio a Pamuk pronunciata in occasione del conferimento del diploma honoris causa a Brera) scrive che la funzione del romanzo-museo di Pamuk è quella di porre, all’oggi, l’accento sul museo non come luogo di intrattenimento, di spettacolo, di rito collettivo guidato da logiche di marketing, ma “come esperimento di pensiero”: lo stesso Settis individua la filiazione dell’opera di Pamuk dall’ars mnemorativa, praticata in una lunga tradizione e teorizzata magistralmente da Giulio Camillo nella sua “Idea del theatro” (1550).

Pamuk costruisce un suo palazzo della memoria (quello di Giulio Camillo era un teatro), nel quale lo spazio è potente metafora del tempo e dove le cose che vogliamo ricordare si pongono in simbiosi l’una accanto all’altra nella mente, anche se sono separate tra loro da un arco temporale. D’altronde nel suo “Modesto manifesto per i musei” Pamuk scrive: “l’epica è paragonabile ai palazzi e parla delle gesta degli antichi re. I musei nazionali allora dovrebbero essere come i romanzi, ma non lo sono”.

EL: Il Museo Bagatti Valsecchi, oltre a essere uno dei cinque musei preferiti da Kemal sui 5723 visitati e l’ultimo visitato prima di morire, condivide con il Museo dell’Innocenza una struttura museologica fatta di accumulazioni di oggetti in un’ambientazione scenica, l’uno nella sua versione di storia privata, l’altro in quella di Storia major. Il Museo Bagatti Valsecchi è infatti frutto della ricostruzione storica e artistica operata dai fratelli Valsecchi a metà Ottocento per rendere alla dimora di famiglia l’ambientazione rinascimentale, dai caminetti ai soffitti a cassettoni, dagli affreschi ai grandi vasi dipinti, dalle armature agli utensili in ferro.

A differenza delle tappe di Roma e Oslo, la mostra attuale ha quindi la particolarità di non essere ospitata in un generico white cube da museo, ma in una Casa-museo. Un’ambientazione significante, tanto che alla mostra, allestita suggestivamente in una stanza buia dallo studio Lissoni Associati, si arriva attraverso un percorso obbligato tra la sala degli affreschi e la Camera Rossa con letto a baldacchino di Giuseppe Valsecchi e della moglie Carolina Borromeo, in cui figura anche la Santa Giustina del Bellini. Quali sono i precedenti di questo tipo di operazione nella storia del collezionismo?

LL: È difficile trovare un paragone davvero calzante all’operazione del Museo dell’Innocenza, calato nelle stanze del Bagatti Valsecchi: si tratta veramente di un unicum, specie considerando che il museo milanese è una delle fonti di ispirazioni principali del romanzo e del museo istanbuliota. Potremmo però dire che il trend di accogliere collezioni o mostre di artisti contemporanei entro contesti che non siano lo white cube della galleria bensì un museo già ben connotato da una propria collezione, legata al personaggio che ha abitato quel luogo, ha vari esempi negli ultimi anni.

Tra questi segnalerei, per l’Italia, quel ciclo di mostre che ha riscosso molto successo di critica e di pubblico a Palazzo Fortuny a Venezia, iniziato con “Artempo” del 2005 e proseguito a cadenza biennale, per varie edizioni, “Infinitum”, “Tra” etc… Nella casa-museo degli artisti Mariano Fortuny Y Madrazo, spagnoli che ebbero grande fortuna in Italia tra Otto e Novecento, sia come pittori che come disegnatori di tessuti e di altri oggetti, è stata accolta a più riprese (e mutando quindi i pezzi esposti) la collezione del belga Alex Vervordt, antiquario di professione ma anche collezionista, la cui raccolta comprende opere antichissime, e di diverse civiltà e opere di artisti del XX e XXI secolo. L’idea di allestire nelle teche e sulle pareti della casa-museo veneziana opere provenienti dalla raccolta di Vervordt, mescolandole a quelle collezionate o realizzate dagli artisti spagnoli, senza che il pubblico potesse quasi distinguerne le provenienze, ha mostrato come in fondo tutto sia contemporaneo se svicolato da esigenze di periodizzazione, generando grandissimo fascino e contribuendo a sensibilizzare il gusto in relazione a questi temi.

E anche se talvolta il gioco del mescolare può essere insidioso e non raggiungere sempre il suo obiettivo, la formula è stata giudicata talmente vincente da aver dato origine ad altre mostre, sempre a Palazzo Fortuny, come quella della collezione di Enea Righi “Quand fondra la neige où ira le blanc?” (2016).

A questo incontro di collezioni si aggiunge la consuetudine ricorrente di allestire mostre all’interno di musei non tradizionali, e a volte poco noti, come ad esempio il Musée de la chasse a Parigi, nel Marais, che nell’inverno scorso ha accolto, mescolandoli alla collezione del museo, i lavori di Sophie Calle e Serena Carone.

Tutti questi esempi, anche se diversi dall’operazione pamukiana, ci riportano a porre l’attenzione più sull’“umanità degli individui”, per citare Pamuk, e quindi ad allestimenti che possano essere più empatici con il visitatore rispetto alle collezioni dei grandi musei, che raccontino non la Storia, ma le “storie”.

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