di Erika Lacava
Dado Schapira ci conduce nel suo studio attraverso un corridoio stratificato di opere e libri, oggetti insoliti e antichi. Cogliamo fin dalle prime battute la sua ironia e leggerezza. Lo intervistiamo sul suo lavoro con un dialogo serrato.
Italia insabbiata, 23 x 35, 2013
Vorrei, partendo da alcuni grandi maestri, iniziare un percorso di analisi della tua opera. I tuoi lavori richiamano, per la lavorazione, artisti come Alighiero Boetti, Luciano Fabro ed Emilio Isgrò, con differenti suggestioni. Di Boetti c’è naturalmente il filo, il ricamo. Di Fabro c’è il tema dell’Italia, delle mappe, dell’ancoramento alla geografia e allo geopolitica, cosa che lo accomuna con Boetti. Di Isgrò il libro e il vissuto che racchiude, e la possibilità, lasciata all’artista, di modificarne la valenza.
Boetti tracciava geografie che si modificavano con il passare degli anni, con le guerre, le invasioni. Quanto di questo lavoro ti appartiene e sotto quale punto di vista? Quello più materiale, segnico, o quello più politico?
Degli artisti che hai citato, Isgrò è forse l’unico con cui penso sia possibile trovare un certo legame con il mio lavoro. Di Boetti non ho mai pensato ci potesse essere affinità né materica né tantomeno di impegno politico. Io parto da presupposti diversi, più semplici, anche se in alcuni lavori c’è la volontà di collegarmi alla politica, come in quelli su Israele e sull’Iran, temi che mi riguardano più da vicino o mi interessano.
Quali sono i maestri a cui attribuisci un debito nel tuo percorso artistico?
Posso dire che nessuno mi abbia realmente influenzato. Io amo tutt’altro genere di pittura, i fiamminghi, Brueghel, Canaletto, Bellotto, Bosch. Quando vedo i loro quadri provo un’emozione fortissima, come per la trappola per uccelli di Brueghel.
Però hai una collezione di arte contemporanea.
Sì, ho acquisito opere di arte contemporanea di giovani artisti perché amo l’arte! Un Brueghel, purtroppo, non posso permettermelo…. poi se posso conoscere l’artista è anche meglio, ne apprezzo di più l’opera, come nel caso di Canaletto…. Scherzi a parte, apprezzo artisti come Jeff Koons ma non a livello estetico: mi piace perché è un genio, non semplicemente come artista ma per come sa gestire la sua immagine a livello globale. Un contemporaneo che apprezzo molto è Christo; ho avuto anche la grande fortuna di conoscerlo personalmente, e con lui credo ci siano davvero dei livelli di affinità.
I tuoi studi in Scienze politiche internazionali quanto hanno determinato il tuo sviluppo artistico e in che modo?
Io lavoro in maniera libera, senza pensare a riferimenti esterni. Il lavoro si crea da solo, di giorno in giorno, quasi per osmosi con la realtà. Spesso l’ispirazione nasce dal caso: leggo un articolo e ho un’ispirazione, vedo un servizio in televisione e realizzo un lavoro inerente a quell’argomento. Ad esempio il mio lavoro “Delara”, una ragazza iraniana pittrice, impiccata nel 2009, nasce dopo aver letto di lei sul giornale. Puoi chiamarlo lavoro politicizzato o impegnato: sicuramente è un quadro invendibile!
Per te l’arte è quindi una questione d’ispirazione?
Ma man mano che lavoro mi vengono le idee, una insegue l’altra, basta un gesto e arriva un’idea. Ogni giorno molti impegni mi portano via dallo studio e se capita che non sono qui magari l’ispirazione scompare. Molti lavori non si sono realizzati per lo svanire dell’attimo, o per mancanza di tempo. Se avessi più tempo farei molte più cose perché tantissime le dimentico. Quando posso disegno per fissare l’idea, faccio degli schizzi. Fin dalla scuola mi dicevano “Schapira disegna, così almeno stai zitto”! Ora disegno purtroppo poco, spesso solo semplici schizzi. Però mi considero bravo con la manualità, la gestualità, nella vita reale e anche nell’arte. Ti farò vedere degli oggetti bellissimi, molto complicati, dei piccoli macchinari elettrici che richiedono, per essere realizzati, moltissimo tempo, sono difficilissimi da costruire. Li amo molto e li tengo solo per me e mia moglie.
Adoro gli oggetti “vecchi”, ne colleziono molti, forse anche inutili, oggetti che oggi sarebbe impossibile realizzare, e che comunque non avrebbero più la magia di un tempo. Nello studio di sopra, dove ho iniziato a lavorare, disegnavo guardando delle macchine da scrivere. A un certo punto ho inserito un foglio in una macchina e così è nato il primo lavoro con i fili. In quel momento si è creato un collegamento tra il pensiero e quello che scrivevo, e le parole hanno smesso di scorrere, si sono bloccate sul foglio, come congelate. Per un attimo ero riuscito a fermare il pensiero.
Quindi Il motore, a livello genealogico, è stato questo. Ci sono lavori che “escono” dal testo scritto e altri che si delineano a partire dalla loro sorgente, dalle macchine da scrivere. Come si differenziano, nella genesi, questi tipi di lavori? Di quale valenza di significato sono portatori?
Sì, forse una parte del mio percorso artistico è nato dalle macchine da scrivere. Però, vedi, ho una vecchia Olivetti del 1950-60, probabilmente come quelle usate dall’esercito israeliano durante la Guerra dei 6 giorni: vorrei farci un lavoro ma è un concetto non ancora sviluppato, che però in nuce è già legato all’idea da realizzare.
Le macchine sono però molto limitative, perché l’idea era di “scrivere” su un foglio una lettera con un solo tasto, per cui scrivere una parola con due lettere uguali diventava impossibile. La macchine da scrivere sono difficili da gestire, anche per un collezionista, pesano, sono fragilissime… ma soprattutto sono molto limitative. Quindi il passaggio più logico è stato il libro, perché i libri in un’opera possono diventare due, tre, quattro, e permettono di scrivere frasi più lunghe, non solo singole parole. Qui si potrebbe accostare il mio lavoro alla poesia visiva, ma non credo sia questo il mio filone.
Il libro non viene mantenuto intatto come supporto, ma viene lavorato. Le parole dei libri sono cancellate, il bordo della copertina viene ridipinto.
Le parole sono cancellate perché il libro è come se fosse una tela. A volte lascio delle parole, ad esempio un nome, o una parte di frase, ma solo se casualmente sono legate al lavoro che sto facendo. Il libro a differenza della tela è un fondo, un materiale ricco, dove è già contenuto tutto, la poesia, la fantasia di altri, le storie, la vita. È un supporto molto più carico di significato rispetto a una tela bianca, ma non ha valore in sé il tipo di libro, o ce l’ha solo raramente. Per esempio, in questo quadro sulla Francia è solo una casualità il disegno del viso di De Gaulle: avevo già dipinto la bandiera francese e avevo già deciso che ci sarebbe stata la data della rivoluzione francese prima di accorgermi dell’immagine, e quindi ho lasciato la pagina aperta, con De Gaulle.
Francia, 60 x 52, 2013
Come scegli i libri per i tuoi lavori? Li scegli per una valenza estetica, per la forma, il colore, la grana della carta, per il loro significato simbolico-letterario o il loro contenuto? Come li eleggi a base per l’opera d’arte?
Il libro ha poca importanza in sé, oltre al significato profondo che racchiude. Viene scelto “fisicamente” per la sua valenza estetica, per le dimensioni, l’equilibro nel quadro. Amo soprattutto quelli più vecchi, ingialliti. Sempre per il carico di storia che portano.
Luciano Fabro definisce l’Italia un “morfema”, un’unità minima di significato con cui si relaziona davanti a posti nuovi, di cui non riesce ad afferrare l’identità. Un modo, in sostanza, per orientarsi. Nel tuo caso, più che alle “Italie”, questo concetto lo applicherei ai libri, che sono come un fil rouge nella tua produzione. I libri offrono diversi livelli di interpretazione. Il libro è portatore di tracce, di storia, è uno scritto grazie a cui dobbiamo la nostra memoria. Attraverso il tuo intervento sui libri si apre un nuovo significato. Come se il racconto scritto nel libro perdesse valore, la memoria storica si sfaldasse, l’oggettività, lo scripta manent, lasciasse spazio a un’interpretazione più individuale, la tua, che nasce pescando dallo storico, dal passa qualcosa di molto personale, usando pezzi di storia e di realtà per delineare il tuo mondo privato.
Il libro certamente racchiude delle storie, un passato. Quello che mi piace, anche se capita raramente, è lavorare con materiale che mi portano direttamente i collezionisti, su un libro fondamentale per loro. In questo modo diventa importante il valore: oltre alla valenza estetica ho una base su cui lavorare, una tela già ricca di storia.
Il popolo ebraico è sicuramente molto legato alla storia, alla tradizione. Resta qualche traccia di questo nel tuo lavoro?
Sicuramente nel lavoro resta il passato, inconsciamente. Un artista ha dentro molte identità. Anche se non sono osservante, e non lo è neppure la mia famiglia di origine, ci si trova qualche volta, una o due all’anno, con i parenti e si ride, si scherza, si canta. Credo che la forza della religione ebraica sia che resta dentro, anche nei non osservanti, un “qualcosa” che ti tiene legato alla storia come popolo e fa parte di noi.
I fili più che imprigionare sembrano liberare un significato. La costituzione dei fili come un intreccio, una trama, sembra svelarci la chiave di lettura di questo enigma, come una cabala di cui alla fine riusciamo a vedere il senso. La trama dei fili si sostituisce alla trama del libro. I fili non sono mai singoli, ma sono sempre vicini, intrecciati.
Infatti mi chiamano anche “il piccolo tessitore”! Il filo viene usato per scrivere parole. Volendo, può essere una trama.
I fili escono dai libri andando verso lo spettatore, come delle parole proiettate che creano un rapporto tridimensionale con il suo sguardo. È un incontro, un’apertura verso lo spettatore, che ha una valenza fisica e materica, in opposizione al significato più intrinseco, personale e privato che sottostà alle tue opere? Come un appiglio per essere guidato…
Può essere una chiave di lettura: la parola sul libro a volte è leggibile, a volte non così immediatamente. Il filo può aiutare lo spettatore a comprendere il lavoro, ad andare oltre. Se lo spettatore si sforza un pochino per capire è anche meglio!
La parte più bella del lavoro è quando i fili si muovono come se fossero dei pennelli. È come giocare con i colori, e intrecciando i fili immagino di dipingere un quadro. In quell’istante, probabilmente, nella magia dei fili colorati intrecciati si completa il mio lavoro, quello che vorrei fosse la mia opera d’arte.
Vediamo alcuni lavori: in questo c’è scritto “Black Gay Jew”.
Non è una denuncia sociale, è più semplicemente un’ispirazione che si concretizza nel collegamento, nell’intreccio tra i fili e colori. Per gli ebrei c’è il bianco che si mischia al rosso del sangue, il grigio identifica i gay, il nero è evidente! I fili si collegano gli uni agli altri, si intrecciano, creano connessioni, rimandi. In ogni lavoro questo rimando è diverso.
La quantità dei nodi ha un significato particolare? I nodi hanno un significato matematico?
In alcuni lavori sì, subentra un discorso matematico. Ognuno ha la sua storia. Se mi vengono in mente delle parole, come “tensione”, il quadro si sviluppa sul discorso della tensione: cambia il colore del libro, il colore del disegno sul libro, cambia il colore dei fili, la posizione dei fili, il numero dei fili, il numero dei nodi, gli intrecci.
Quando sono passato a dipingere, a scrivere la parola sul libro, ho creato spesso e volentieri un collegamento matematico con il testo, qualcosa di preciso. Per esempio in “Feel blue” (un’opera non venduta, fortunatamente!) ci sono tanti fili quanti sono i miei anni, tanti fili quanti sono gli anni di mia moglie, e corrono separati fino a quando ci siamo incontrati per poi diventare uniti, e modificarsi quando è arrivato un figlio, il matrimonio, l’altra figlia. È la dolce storia della nostra vita attraverso fili e calcoli precisi, in correlazione matematica.
Come è arrivata l’illuminazione del filo, del chiodo? Il filo è la connessione tra due punti, due concetti, mentre il chiodo è un punto fermo.
Il filo è la connessione, ma il primo collegamento è stato molto strumentale perché volevo congiungere i tasti della macchina da scrivere al foglio, e il modo più immediato è stato con un filo che probabilmente quel giorno avevo sulla scrivania. Anche prima della macchina da scrivere c’erano dei disegni in cui i fili erano disegnati, solo tracciati, con tratti di colori diversi. Magari c’è del passato anche in questo. In famiglia abbiamo avuto per anni un’industria tessile, e, anche se io non ci ho mai lavorato, forse qualche legame è rimasto, nei ricordi.
Ho trovato un’idea: il filo è stato un modo per fermare l’attimo, congelarlo, e da lì si è aperto un mondo, il mio mondo. Passando dalla macchina da scrivere al libro, i tasti sono stati sostituiti dai chiodi per tenere ancorato i fili, le mie idee.
Ci sono lavori in cui sono presenti solo chiodi, senza più fili. Altri in cui i fili fuoriescono dalla tela, ma per la maggioranza sono racchiusi in delle teche.
Le teche sono un contenitore per fermare il lavoro, il pensiero, che altrimenti continuerebbe a scorrere, a fuoriuscire: in qualche modo dovevo contenerlo, anche se questo ha scontentato qualche mio gallerista!
Infine un tuo lavoro più leggero, l’invasione degli scoiattoli a Cortina nel 2013. Era legato a qualche evento particolare?
Cortina è legata alla mia infanzia, mentre lo scoiattolo è il suo simbolo. Le stesse guide alpine si chiamano “Scoiattoli”. Due anni prima avevo fatto una mostra in cui in alcuni lavori apparivano degli scoiattoli ricoperti di fili, tessuti come corde di montagna; in uno di questi, in particolare, i fili numerati rappresentavano le guide che fondarono il primo gruppo di scalatori, un colore per gli uomini e un altro per le donne. Due anni dopo mi è venuta l’idea di riempire il bosco di scoiattoli. Ho chiesto il permesso alle Regole Ampezzane di appendere le opere agli alberi: nonostante il rifiuto, ho deciso di proseguire lo stesso. Ho aggiunto agli scoiattoli la mascherina, e li ho trasformati in clandestini! L’operazione si è trasformata in un gioco. Ho appeso tutto di notte, per dieci giorni, nei boschi, stando attento a posizionare i lavori in modo da non disturbare, rovinare l’albero. La cosa alla fine non ha destato scalpore: la gente li portava via, mi sono guadagnato un bell’articolo sul giornale. È stato molto carino e divertente.
È rimasta traccia di questo lavoro?
Gli scoiattoli erano tutti marchiati con una targhettina: ho segnato i punti cardinali precisi dove erano legati, per identificarli. Gli scoiattoli disegnati con il tempo sono spariti, fuggiti forse, o, chissà, portati via perché erano semplicemente appesi ad altezze basse. Ho una documentazione con cui mi piacerebbe fare un libro, tra le altre cose, magari un libro d’artista con un’opera inclusa.
Forse la parte che non hai ancora esplorato è la parte figurativa. C’è qualcosa del genere in cantiere?
Mi piacerebbe fare qualcosa sulla grafia, sulla scrittura, che mano a mano si sta perdendo. Al momento di più “grafico” ho un progetto nuovamente per Cortina, la montagna vista da punti di vista differenti: si creano degli scenari prospettici particolari. Ma non diamo troppe anticipazioni!
—————————————————————-