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L’indomabile Letizia Battaglia

26 Marzo 2018
2.796 Views
di Cristina Ruffoni

non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono. Diversamente, il fotogiornalismo sarebbe soltanto una sequenza di scatti senz’anima.”

Mario Dondero

Ogni fotografia dei morti di mafia di Letizia Battaglia, non è solo un documento o una testimonianza ma rappresenta  un atto di memoria, una difesa dalla tentazione dell’oblio, una necessaria commemorazione, perché siamo ciò che siamo stati, soprattutto ciò che ricordiamo di essere stati. Annientare il ricordo, significa distruggere la nostra identità e la nostra continuità nel tempo.

In questa epoca, ad  affermarsi é la logica dell’entertaiment,  ad imporsi la strategia dell’evento, uno show ad oltranza secondo gli imperativi del  “sistema dello spettacolo”, di cui aveva parlato in un celebre pamphlet del 1967 Guy Debord, che aveva descritto la modernità vissuta come rappresentazione infinita, senza più necessità di distinguere tra  le immagini della verità e quelle della finzione. Nel monitor e sullo schermo, nei social,  la visione delle atrocità, la rappresentazione degli attentati o la ripresa delle stragi, vengono edulcorate  ed enfatizzate, alternandosi ai cataclismi della fantascienza e alle imprese dei supereroi Hollywoodiani, con sottofondo la narrazione dei reality, per soddisfare indifferentemente, la nostra insaziabilità visiva e un morboso sadismo.

La giovanissima Letizia Battaglia inizia come giornalista dal 1969, con una collaborazione al quotidiano palermitano  L’Ora, uno dei primi articoli é sulla condizione degli zingari ma passa subito alla richiesta di fotografie di cronaca, con diverse collaborazioni anche a Milano, non riuscendo per sua stessa ammissione a stare lontano da Palermo: “…Io vorrei andarmene ma non ci riesco, la amo morbosamente e ho ancora molte cose da fare nella mia città”.

Nel 1974, é fondatrice dell’Agenzia “Informazione Fotografica” con Franco Zecchin, collegata allora, illegalmente con la Polizia, in modo da poter correre sul luogo del delitto e  lei, quando come donna viene fermata dai carabinieri, si mette ad urlare. Le sue immagini, prima ancora che per ragioni tecniche e formali, fanno riflettere sugli aspetti morali ed etici e di come, una certa fotografia, può amplificare la nostra esperienza, dilatando la leggibilità visiva e l’impatto emotivo. Come racconta il collega Tano D’Amico, il fotografo degli anni di piombo,  le fotografie sono in realtà esperienza catturata e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza condivisa.

Bambina con il pallone, ph Letizia Battaglia

Letizia Battaglia non si é mai sottratta dall’assedio del puro presente, non ha mai adottato la strategia della distanza, della muta solitudine, anche di fronte ai camorristi o ai capi mafia, vuole incrociare i loro sguardi, per  un confronto paritario, con chi è ammanettato o in stato di fermo: “Io ho bisogno di essere vista, magari di essere sputata in faccia. Ho bisogno di essere vista mentre scatto la foto, ho bisogno di essere alla pari…”

La fotografa sprofonda e ci trascina in fondo agli sguardi delle donne e delle bambine palermitane ritratte, perché della sua città, é continuamente con rigore e passione, l’interprete e  tutto questo serve a immaginare, a desiderare e a costruire un’alternativa concreta allo stato delle cose.

Il suo ininterrotto impegno pubblico, i giornali da lei fondati e le battaglie civili intraprese, sfociano poi nel progetto e nell’apertura fortemente voluta  del Centro Internazionale della Fotografia a Palermo, con la continua e gioiosa speranza di dimostrare che non tutto ciò che esiste è naturale che esista così, un entusiasmo e una volontà che passano attraverso un rinnovato incontro tra conoscenza del passato e critica del presente.

Ad un certo punto, dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, apparentemente gli omicidi sembravano diminuiti. In realtà, la mafia è cambiata, si è amplificata internazionalmente e diramata nei poteri forti, in  alcune delle cariche politiche e istituzionali dello Stato”.

Paragonata a Sander e a Diane Arbus, Battaglia, non ha il distacco trasversale del primo e neppure “la consapevolezza infelice” di colei che fu vittima psicologicamente della propria imparzialità e della propria curiosità: “Scoprire attraverso la fotografia che la vita è proprio un melodramma, rendersi conto che la macchina fotografica è un’arma d’aggressione, comporta che devono esserci vittime.”

Quando a Letizia Battaglia, viene chiesto, come abbia resistito al sangue, alle urla, a un dolore che non é solo personale, lei risponde, con lentezza, piano piano, come una preghiera, un misto di eccitazione e paura, l’impegno civile e la curiosità per l’altro: “Ma il coraggio non è avere paura, è averne e continuare a fare quello che stai facendo, come lo fanno i Poliziotti o i Giudici che vivono sotto scorta. Sono arrivate minacce e gesti di violenza anche nei miei confronti e lo sapevo che la lotta era impari, io avevo solo una macchina fotografica. La morte è sempre stata presente, ma non ci penso. Si deve cercare di essere allegri anche nella disperazione.”

 

Arresto del feroce boss mafioso Leoluca Bagarella. Letizia Battaglia, Palermo, 1980.

Ha sempre sostenuto che la tecnica non è mai stata fondamentale, che è stata un autodidatta. Su cinquanta immagini, una sola si salva. La necessità di raccontare storie esiste ancora. Anche se ormai con forme e strumenti più diversi che oggi si chiamano digitale, cinepresa, online. Però considera le immagini riprodotte dai social, per lo più superficiali ed é per questo, che consiglia ai giovani fotografi di ritornare in strada?  Per documentare questa nuova povertà. Per raccontare questo nuovo dramma.

La fotografia realizzata e consumata con i cellulari, é solo un gioco. Al giovane che si appresta in questa avventura, consiglio prima di tutto di studiare la Storia della Fotografia e i suoi grandi protagonisti e parallelamente la Storia dell’arte, poiché é come se un pittore volesse scomporre la forma, senza conoscere il Cubismo o Picasso. Fu l’introduzione di un punto di vista, il punto di vista prospettico a trasformare, tra Medioevo e Rinascimento, il modo di fare arte, collocando uomini e cose in una nuova dimensione spaziale.

Non si è mai sentita stimata ed incoraggiata dai Direttori dei giornali, in Italia c’é poco rispetto per il fotoreporter che scatta, paragonato al giornalista che scrive. Un’arretratezza culturale in confronto ad altri paesi, come si spiega?

Sono ancora infuriata con la maggior parte dei Direttori dei giornali, cinici, ignoranti e superficiali, senza neppure l’umiltà di affiancarsi ad un art director, capace di comprendere e gestire il talento e l’energia dei fotografi, quelli speciali ovviamente. C’é anche molta aviditá in questo disprezzo verso il fotografo, al contrario,  un professionista deve essere valorizzato, sostenuto e non sfruttato, la crisi dell’editoria e del cartaceo, é dovuta anche a questo pressapochismo e mancanza di solidi riferimenti etici e culturali. Come mai questi direttori, non chiedono e aprono inchieste su come crescono e vivono i giovani nelle periferie, per la strada? Forse questa realtá non é abbastanza accattivante o paradossale e quindi redittizia  per le vendite e la visibilitá?

Poche sono state le donne reporter soprattutto di guerra, Gerda Taro, compagna di Robert Capa morta tragicamente come lui  e l’italiana Tina Modotti, autrice di celebri foto messicane, che preferì poi lavorare negli ospedali. Oggi la mentalità é cambiata verso questo universo femminile, con cui si è trovata sempre in particolare sintonia, quasi in modo ancestrale, come richiamo alla terra. Cosa consiglia in particolare a una giovane fotografa, a un’inviata di guerra?

Il caso di Gerda Taro, é stato mistificato, ha fatto solo pochi scatti, senza aggiungere o togliere nulla a un repertorio, sicuramente ancora oggi, dominato da uomini. Ci terrei peró a sottolineare l’importanza della quotidianitá, della vita che scorre sotto casa, a un giovane, suggerisco, di trovare il mondo nella sua camera, prima di documentare la tragedia, é la meraviglia del particolare, di quello che abbiamo vicino, che dobbiamo riscoprire e raccontare, solo in questo modo, senza sensazionalismi, si puó acquisire gli strumenti autentici dell’espressione e della forma.

Aver vinto prestigiosi premi, non ha più grande importanza, per Letizia Battaglia,  rispetto al traguardo di aver visto nascere e svilupparsi il Centro internazionale di Fotografia, ai cantieri culturali alla Zisa di Palermo.

Centro Internazionale di Fotografia, Palermo

Dopo un periodo di forzata chiusura, il Centro si è riaperto con luoghi di riunione e di lavoro anche per i giovani artisti e non solo, con attenzione particolare al  territorio, con degli spazi per mostre internazionali e persino una scuola, un luogo d’incontro per fotografi che non smettono di raccontare e di confrontarsi. Uno strumento per reagire al degrado, per favorire un’arte pubblica e civile e disinnescare l’attuale dittatura del mercato e dei consumi, giá profetizzata da Pierpaolo Pasolini a cinquant’anni  di distanza. Cosa si aspetta da Palermo come cittá della cultura nel 2018? Qual’é attualmente lo stato del Centro?

Bisogna chiarire, che si sappia, molto é stato fatto e tantissimi progetti sono in corso, come la mostra che deve inaugurare in questi giorni, che affianca fotografi cinesi, con giovani fotografi italiani. Non ho mai separato il sociale dall’estetica, un esempio, é stata la mostra sul terremoto di Poggioreale, paese distrutto cinquanta anni fa o quella sul caso Mattei, mistero irrisolto ancora oggi e di grande attualitá. Non ci sono più soldi e i finanziamenti giá previsti, non sono mai arrivati, a causa di una pessima gestione e uno spreco da parte di molti burocrati, assessori e politici, che preferiscono investire, in mostre scadenti e di facciata, dove possono speculare, come quella sulla Madonna.

Il centro é bellissimo e frequentato da stranieri e turisti, oltre che punto d’incontro di giovani e artisti, con studiosi e veri appassionati ma se non si trova uno sponsor, tutto diventa provvisorio e non concreto, ad esempio, la mia idea di portare le mostre di artisti come Josef Koudelka, non é piú ipotizzabile, fattibile. Pina Bausch, all’epoca, era venuta con un compenso insignificante, per pura passione e viscerale partecipazione, Giovanna Calvenzi, ha lavorato gratuitamente per realizzare un magnifico e particolare progetto sulle migrazioni, coinvolgendo trentaquattro giovani fotografi su questo tema ma non si puó continuare una seria attivitá e un’ampia programmazione, senza fondi e sostegno, anche solo per le strutture e la manutenzione, anche delle semplici cornici costano o far venire delle fotografe americane, le migliori ad esporre, qui a Palermo. Personalmente, ho esaurito ed investito, quello che ho, per il Centro, ora ho proprio bisogno d’aiuto per poter continuare come abbiamo fatto, anche per la cittá di Palermo, che molto affida alla crescita e allo sviluppo di questo luogo, un arrichimento non solo creativo ma sociale e antropologico, insito nel territorio e le sue realtá urbane e sociali.

Nelle sue  “Rielaborazioni”, i corpi massacrati, vengono decontestualizzati in altre scene, viene spostato il punto centrale per impiantare nuove scenografie, creando slittamenti visivi e di senso. Dei microcosmi  che contengono e amplificano lo spazio, quasi come una quinta teatrale. Invece di bruciare le pellicole dei negativi, le immagini diventano spunti di nuove dimensioni. Cosa pensa invece del Photoshop?

Questo accumulo e inevitabile sparizione delle immagini, é una spia, di come continuamo a pensare all’uomo nell’era della tecnica e che forse non funziona più ma da  questo disincanto del mondo e spaesamento, puó nascere una nuova libertá, non per trovare la salvezza ma doni del paesaggio che abbiamo disabitato, per quello artificiale. Un ritorno alla lettura della  carta, ai volti di carne, al suono delle voci e della strada. 

Gli anni dominati dal terribile intreccio tra politica, mafia, corruzione e abusivismo, non sembrano finiti e se la Fotografia non puó cambiare il mondo, non si puó smettere d’intendere la cultura come resistenza, come mezzo per comprendere. Anche se la politica la delusa,  il suo impegno civile e artistico hanno sempre coinciso. Dopo queste elezioni, che scenario si prospetta per il nostro paese?

Si sono avverati i pericoli, lucidamente indicati da  Leopardi e lo stesso Pasolini, per i quali, il progresso occidentale è in realtá un regresso del mondo umano, un’opacitá in cui non è più leggibile il senso e l’utilitá della storia ma personalmente non posso ancora cedere o ritirarmi, ho intrapreso una nuova sfida,  perché il futuro del Centro Internazionale, é quello in cui credo e ripongo le mie speranze.

Letizia Battaglia, ph Bruna Ginammi

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